Stefano Cecchi, ItaliaOggi 19/10/2012, 19 ottobre 2012
COL CONFINO LA MAFIA SI È ESTESA
[Il soggiorno obbligato ha portato i mafiosi anche dove non c’erano] –
Dottor Vigna, la mafia fa affari anche a Firenze?
«Sì, a Firenze e in Toscana. Per colpa anche di quella strategia perversa che fu il “soggiorno obbligato”: trasferendo il mafioso in luoghi “puliti”, si sono contaminati anche questi».
A Firenze si paga il pizzo?
«Ho l’impressione di sì.
Come credo ci sia una forte attività di riciclaggio. Vedo spesso locali che si modernizzano, passano di proprietà, ma quando si guarda dentro non si notano quasi mai clienti. Queste sono spesso forme di investimento di denaro sporco».
Cosa direbbe a un commerciante fiorentino che paga il pizzo?
«Gli direi che se non smette, presto la sua attività commerciale finisce. L’usuraio di mafia non tende al recupero del denaro quanto a impossessarsi della realtà economica. Avendo mezzi di pressione enormi, prima o poi ci riesce».
Torniamo al passato: lei era magistrato ai tempi dell’alluvione...
«Nel pomeriggio del 4 novembre, appena l’acqua iniziò a scemare, corsi alle Murate ed entrai: la prima persona che mi venne incontro fu un carcerato che avevo fatto condannare il 2 novembre. “Andiamo bene” dissi fra me».
Le saltò addosso?
«Sì, ma per abbracciarmi commosso. Nelle avversità si manifesta quasi sempre il sottofondo di umanità delle persone».
Non era la prima volta che andava nelle carceri coi detenuti in subbuglio...
«No. Una volta alle Murate c’era stata una sparatoria dopo un tentativo di evasione. Un carcerato era stato ucciso e gli altri vollero che andassi io a riprendere il cadavere. Non volevano che le guardie lo toccassero».
Momenti non facili...
«Per niente. Un’altra volta un carcerato era scappato sul tetto e minacciava di gettarsi se non fossi andato io a riprenderlo».
Raccontano che anche lei salì sul tetto...
«Era vicino allo strapiombo che guarda via Ghibellina. Mi avvicinai e me lo legai alla cintura: “Oh, non fare il bischero che qui voliamo di sotto tutti e due!”. E lui: “Stia tranquillo, ho chiesto che venisse proprio lei a garanzia che non mi picchiassero”».
Torniamo all’alluvione: passata la piena, apriste un’inchiesta.
«Insieme al collega Caponnetto. Un’impresa: non si capiva chi avesse dovuto provvedere al caso. A chi spettava la responsabilità».
Qualcuno sosteneva all’allora Provveditore alle opere pubbliche...
«Forse. Peccato che lui dell’alluvione fosse stato informato solo al mattino, quando la domestica aprì la porta e si trovò l’acqua in casa».
La situazione della Protezione Civile era, come dire, approssimativa...
«Alcune voci indicavano negli scarichi delle dighe a monte di Firenze la responsabilità del disastro».
E lì indagaste...
«Sì, ma gli addetti agli invasi, avendo sentito anche loro le voci e temendo per le loro responsabilità, falsificarono grossolanamente i registri degli scarichi».
E voi che faceste?
«Con Caponnetto andammo su alle dighe e iniziammo a interrogare gli addetti: “Hai compilato tu i registri?”. “No”. “Bene: dentro per falsa testimonianza!”».
Non ci andaste mica leggeri...
«A un certo punto arrivò un ingegnere: “Guardate, che se continuate così devo togliere la luce a Firenze perché non m’è rimasto nessun dipendente”».
Quella degli scarichi, però, si rivelò solo una voce...
«Una leggenda metropolitana».
E alla fine non incriminaste nessuno.
«No, anche se durante le indagini avevamo maturato l’idea che il prefetto fosse responsabile per omicidio colposo. Fin dalla sera era stato sull’Arno e aveva visto il progredire delle acque. Avesse dato l’allarme, qualcosa si sarebbe salvato».
E perché non lo incriminaste?
«Quando venne fuori questa nostra impostazione, il procuratore generale della corte d’appello avocò a sé il caso. È stata l’unica inchiesta per la quale ho versato una lacrima».
Un altro momento in cui Firenze si è ritrovata unita nel dolore è stato per la bomba ai Georgofili...
«Arrivai sul posto dopo pochi minuti. La nostra speranza, pur nel dolore per la morte, era che fosse stata una fuga di gas».
Lei la escluse quasi da subito...
«Perché scavando di fronte all’ingresso dei Georgofili, i Vigili del Fuoco trovarono un cratere che dava l’idea dell’esplosione. Poi, entrando dentro l’edificio, trovammo un motore d’auto e prendemmo il numero di serie. Nonostante fosse notte, la Fiat nel giro di due ore ci fece sapere che apparteneva a un Fiorino rubato a Firenze. Non c’erano più dubbi».
Una bomba di mafia. Per la quale, caso raro in Italia, siete riusciti a condannare esecutori e mandanti...
«Ricordo che l’allora presidente del consiglio, Carlo Azeglio Ciampi, venne a Firenze in una delle classiche riunioni in Prefettura. A un certo punto mi chiese: “Lei che dice?”. E io: “Dico che li prenderemo”».
La città ha capito l’importanza del vostro lavoro?
«Sostanzialmente sì, anche se c’è chi non è soddisfatto e vorrebbe arrivare a delle condanne a livello superiore».
Un’aspettativa legittima?
«La magistratura ha sempre bisogno di prove. Solo queste portano alla condanna. Gli scenari, invece, li può fare la politica. Se li vogliono, facciano dunque una commissione parlamentare».
Qual è il peggior nemico per un magistrato?
«Il peggior nemico è l’errore. Per evitarlo servono prove sicure».
Dottor Vigna, lei ha mai avuto paura?
«Le rispondo come diceva Falcone: “Chi ha paura muore tutti i giorni, chi non ha paura muore una volta sola”».
Falcone lei lo conosceva bene...
«Poco prima che lui morisse lo incontrai a Roma: “Vieni a Firenze a casa mia, ti riposi, stacchi un momento”, gli dissi. E lui: “Non temere, io non sono come Chinnici, io sto attento...”. Come vede, è meglio non porsi il problema».
Dice di non avere avuto paura ma Prima Linea stava per ucciderla...
«Questo è un episodio che mi raccontò Marco Donat Cattin dopo essersi dissociato. Alla fine di un interrogatorio mi disse: “Lei gioca a tennis vero?”. E io: “Veramente no”. E lui: “Ci pensi bene. Lei giocava sul Lungarno Colombo”. Allora ebbi un ricordo».
Quale ricordo?
«Anni prima andavo spesso in quel luogo a prendere mia figlia che giocava a basket. “Com’è che lo sa?”, chiesi a Donat Cattin. E lui: “Lo so perché per tre volte le sono venuto dietro per spararle alla testa, ma non ho mai trovato il momento giusto”».
Anche Ordine Nuovo ha tentato di ucciderla...
«Successe nel ’76. Una sera, intorno alla mezzanotte, stavo tornando dalla festa di matrimonio della figlia di un amico, quando sulla via Imprunetana un’auto mi tagliò la strada e mi si bloccò davanti».
Si rese conto che era un agguato?
«Macché. Pensai a un ubriaco, ce la feci a sterzare e andai via. Invece era Pierluigi Concutelli che già aveva ucciso il giudice Occorsio. Qualche tempo dopo, durante un interrogatorio, lo stesso Concutelli mi disse: “Dottore, come l’ha passata la notte dopo quella festa di matrimonio?”».
Ma come faceva a sapere che lei era lì?
«Perché la sposa l’aveva detto a una sua cara amica di Perugia che era la fidanzata di Concutelli. La vita a volte è un caso singolare».
Lei per anni si è occupato anche della vicenda Mostro...
«Di questo dico solo che, con Paolo Canessa, individuammo il cosiddetto Mostro in Pacciani, Vanni e Lotti. Per il resto preferisco non dire altro».
Dottor Vigna, si è mai sentito l’uomo più potente di Firenze?
«Ma per carità. Questo mestiere l’ho sempre concepito come servizio».
Ha mai comprato una borsa falsa da un vu cumprà?
«No. Una volta però dei napoletani vennero a offrirmi dei tappeti».
E lei che fece?
«Dissi loro: “Grazie, ma sono il procuratore nazionale antimafia”. Questi sorrisero: “Eh dottò, faccia come se non le avessimo detto niente, eh?”».