Stefano Livadiotti e Giulia Paravicini, l’Espresso 25/10/2012, 25 ottobre 2012
SE IL PIL È DONNA [
L’occupazione femminile produce più ricchezza. Perché crea un indotto nei servizi alla famiglia. È la Womenomics. Una teoria che piace a Confindustria. Ma fatica a trovare sponsor] –
A Francoforte c’è un buco nell’organigramma della Banca centrale europea. Yves Mersch, storico governatore lussemburghese designato nell’esecutivo della Bce dal Consiglio europeo, attende da quattro mesi la formalità di un’audizione davanti al Parlamento di Strasburgo. Dove però è in corso una protesta silente contro l’ennesima nomina al maschile. Ottocento chilometri più a Sud, nel Parlamento italiano, s’è appena sfiorata la rissa. È successo quando, mercoledì 10 ottobre, è stata messa ai voti la legge per le quote rosa alle elezioni comunali. La maggioranza del Pdl, dopo aver tentato inutilmente di fare muro, ha promesso battaglia quando il testo approderà a Montecitorio.
Nel 2000 la Commissione europea si era data un obiettivo: portare l’occupazione femminile al 60 per cento nell’arco di dieci anni. Poi, il traguardo è stato via via spostato in avanti. E oggi si parla del 75 per cento nel 2020. Grazie soprattutto alla performance dei Paesi scandinavi, attualmente nella Ue lavorano in media 58 donne su cento. L’Italia è ben lontana: secondo l’Istat, il tasso di occupazione femminile nel 2010 era fermo al 47,2 per cento (frutto di una media tra il 30,8 del Sud e il 56,9 del Nord-Est). Stavamo, insomma, più avanti solo di Malta. In Francia le statistiche parlano del 64,6 per cento. E in Germania del 71,1. Da noi, negli ultimi 15 anni, è stata appannaggio delle donne la maggior parte dei nuovi posti di lavoro. Nonostante ciò, è ancora molto alto il gap con gli uomini, che vantano un tasso di occupazione del 66,7 per cento. La differenza è dunque dell’ordine dei 20 punti. In Germania si ferma a nove, che scendono a otto in Francia. Ecco perché siamo solo settanquattresimi (su 134) nella graduatoria della parità del World Economic Forum. In alcune professioni per raggiungerla ci vorrano secoli: secondo la demografa del Cnr Rossella Palomba, le magistrate, per esempio, dovranno attendere il 2601. La situazione non cambia poi di molto se si considera l’insieme delle giovani (25-39 anni) laureate. Lavora il 78,7 per cento, contro una media Ue dell’87,9.
Il 67,6 per cento dell’occupazione femminile è concentrato nel lavoro domestico, nell’insegnamento e nella sanità, dove sono donne i quattro quinti dei lavoratori. Seguono, nell’ordine, i mestieri di parrucchiera, operaia (nel tessile), ragioniera, segretaria e commessa. C’è dunque una concentrazione nelle professioni a minore tasso di specializzazione, che è aumentata con l’incalzare della crisi economica: secondo un rapporto dell’Istat, tra il 2008 e il 2010 l’occupazione femminile qualificata è scesa di 270 mila unità, mentre quella non qualificata aumentava di 218 mila.
Per le donne l’inizio della carriera è un percorso a ostacoli: il 35,2 per cento di quelle tra i 18 e i 29 anni ha un lavoro precario, contro il 27,6 per cento degli uomini. E i passi succssivi non sono più agevoli. Il part-time coinvolge il 20,3 per cento di loro (gli uomini sono al 2,3). E quelle cui è affidata una mansione non commisurata al titolo di studio sono addirittura il 52 per cento (41,7 per cento tra i maschi) Il risultato si misura soprattutto in termini di gap salariale. Alla fine, le donne guadagnano il 20 per cento meno dei colleghi.
In questo quadro, non poteva che far discutere la sortita dei giorni scorsi di Marcella Panucci (vedere l’intervista in queste pagine). Il direttore generale della Confindustria ha detto che bisogna puntare sull’occupazione femminile non solo per una questione di equità, ma anche perché è in grado, più di quella maschile, di spingere verso l’alto il Pil. Una teoria non nuova, cui nel 2006 il settimanale "The Economist", prendendo spunto da un paper dell’analista di Goldman Sachs, Kathy Matsui, ha dato pure un nome: Womenomics. Un’idea basata su un presupposto. Così riassunto dal premio Nobel 2010 per l’economia, il cipriota Christopher Pissarides: «Quando le donne lasciano la famiglia per entrare nel mercato del lavoro creano una domanda aggiuntiva di servizi, che spaziano dall’accudimento dei figli o degli anziani a tutta la gamma dei lavori domestici». Il conto l’ha fatto Maurizio Ferrera, autore de "Il fattore D", sottotitolo "Perché il lavoro delle donne farà crescere l’Italia". «Per ogni 100 donne che entrano nel mercato del lavoro si possono creare fino a 15 posti aggiuntivi nel settore dei servizi». Con un vantaggio: queste attività non possono essere delocalizzate in Paesi a più basso costo della manodopera.
Il problema è che in Italia questo tipo di servizi o non esiste proprio o costa un occhio della testa. Un po’ perché siamo il fanalino di coda europeo nella spesa per la protezione sociale (1,4 per cento del Pil, contro una media Ue del 2,3 per cento). Ma anche perché il basso tasso di occupazione femminile non ha prodotto una sufficiente domanda nel settore. Insomma, il classico cane che si morde la coda. E che in questi anni ha portato l’8,7 per cento delle mamme ad accettare di mollare tutto, magari obtorto collo, alla nascita di un figlio, anche a causa del meccanismo delle dimissioni in bianco.
Una strada percorribile ci sarebbe pure. Se ne parla da anni. E con maggiore insistenza negli ultimi mesi. Senza, però, che si sia mai arrivati a una soluzione concreta. Si tratterebbe di detassare stabilmente (riducendo l’Irpef) il lavoro femminile, accettando una riduzione tout court del gettito fiscale, o prevedendo una compensazione attraverso un innalzamento delle aliquote sul lavoro maschile.
Il ragionamento è semplice. Il lavoro femminile è caratterizzato da un più elevato livello di flessibilità. Significa che un piccolo incremento di salario netto spingerebbe molte donne verso il mercato del lavoro. Mentre un limitato taglio alla paga maschile non varrebbe a trattenere a casa gli uomini.