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 2012  ottobre 25 Giovedì calendario

CAMERE ADDIO [

Sono quelle di Commercio, che spendono 1,5 miliardi di euro l’anno e condizionano la politica locale. Ma anch’esse destinate ora a dimagrire. Seguendo il destino delle Province] –
Lì dove il mare luccica...." Lirico, il centralino della Camera di commercio di Napoli fa partire Caruso al primo squillo. Bene, perché l’attesa può protrarsi un po’, soprattutto se si cercano informazioni sulla vita interna della camera. Il bilancio, per esempio, che le 105 camere di commercio italiane non sono obbligate a rendere pubblico sul loro sito. Qualcuna lo fa, qualcuna no. A macchia di leopardo, come tutto il sistema delle camere di commercio, strane entità economiche, un po’ pubbliche e un po’ private. Piccoli e grandi centri di potere disseminati su tutte le province, che distribuiscono oltre 1 miliardo e mezzo di euro all’anno, oltre a brillare nella galassia delle società miste a cui partecipano con gli enti locali, e a reggere patti di governo in città e province. Adesso, tutto il sistema delle camere di commercio è in fibrillazione, per effetto della spending review. Dovrebbero sparire 69 province: che ne sarà delle relative camere di commercio? E come si accorperanno, divideranno, gestiranno poltrone e risorse?
SOLDI PUBBLICI. Ogni anno le imprese italiane versano alle camere di commercio 1 miliardo e 171 milioni. Non si tratta di soldi privati, frutto di liberi contributi: le imprese sono obbligate a iscriversi e devono pagare per farlo. Una tassa, insomma. Per questo le camere sono enti pubblici; ma da oltre vent’anni sono staccate dal corpaccione della pubblica amministrazione e collocate in un regno intermedio, autogestito dalle associazioni imprenditoriali: una riforma di cui fu ideatore e protagonista Piero Bassetti. Così le camere di commercio si sono trasformate, negli anni, da feudi democristiani della prima repubblica a facoltosi protagonisti della politica locale, più king-maker che "clientes". Ne sanno qualcosa a Roma, dove i destini delle giunte si sono spesso decisi, o bloccati, più nelle stanze della Camera di commercio che al Campidoglio. E dove ora l’intreccio è plateale, con la doppia presidenza di Giancarlo Cremonesi, che siede sia al vertice della Camera sia a capo dell’Acea, società municipale dell’acqua e dell’energia. Ma la stessa legge vale un po’ ovunque. Il segretario generale della Camera di Commercio di Milano, Pier Andrea Chevallard, non si limita ad amministrare la seconda camera italiana; ma siede anche nei cda della Scala e della Fiera, e colleziona una sfilza di altre cariche. Così come tanti altri grand commis delle camere; che del resto, mettono lo zampino dove mettono i soldi: il che, con la carenza di fondi pubblici, succede spesso. E così, via all’ingresso in Fiere e aeroporti (le camere locali sono presenti in molti dei 90 aeroporti italiani, l’85 per cento dei quali è in perdita), auditorium e teatri, tangenziali, interporti e autostrade, alta moda e sagra del peperoncino: il totale delle partecipazioni finanziarie delle camere italiane ammontava nel 2011 a 1 miliardo e 311 milioni. A fronte di tutto ciò, una struttura pletorica, con quasi 8 mila dipendenti; al cui mantenimento, a livello nazionale, è destinata quasi la metà del bilancio corrente, mentre solo il 30 per cento va agli "interventi economici": quelli che se tutto va bene dovrebbero finire in tasca alle imprese, ma che il più delle volte sono spartiti in promozioni e sponsorizzazioni tra le stesse associazioni che siedono ai vertici delle camere.
In tutto ciò, ogni camera è sempre rimasta legata al suo bacino di riferimento: la provincia. Anzi, insieme alle province sono cresciute e si sono moltiplicate, da Verbano a Fermo. Fino a un certo punto, però: quando la Sardegna ha tirato fuori dal cappello microprovince come Ogliastra e Medio-Campidano, dalle camere di commercio qualcuno ha cominciato a protestare e a porre paletti, facendo capire che a forza di spezzettarsi si finiva per impoverirsi troppo. Ma per la gran parte, il sistema delle Camere ha seguito la proliferazione delle province, con tutti i suoi costi. Naturale quindi che, mettendo mano alla spending review, il governo abbia chiamato in causa anche il mondo delle camere di commercio. L’ultima volta, in una lettera del 30 agosto, nella quale il ministro Corrado Passera ha chiesto al presidente di Unioncamere Ferruccio Dardanello di fare proposte per una "urgente riforma" delle camere, "in modo da assicurare bacini di utenza più ampi, economie di scala nei servizi e una riduzione dei costi per le imprese". Per ora, al ministro non è arrivata risposta. E ancora non è chiaro come saranno rifatti i confini delle camere di commercio: seguendo quelli delle province? O con altri criteri, tutti economici?
CAMERE IN ROSSO. «Noi non siamo obbligati a seguire la spending review, non siamo pubblica amministrazione», è la prima risposta che danno gli addetti alle camere, interpellati sui tagli. Così come non sono obbligati a pubblicare i bilanci, che infatti restano oscuri se non nei grandi numeri aggregati. Però si sa, nel mondo delle camere, quali sono quelle che vivono alla grande, quali vivacchiano e quali sono in rosso. «Bisogna guardare al numero delle imprese, più che alla popolazione o ai chilometri quadrati. E un numero di riferimento già c’è, indicato da una legge del 2010: 40 mila imprese», dice Ugo Girardi, segretario generale delle camere di commercio dell’Emilia Romagna. La sua è una delle poche regioni che una proposta l’ha già avanzata, ed è quella di accorpare tutte le camere che oggi sono sotto la soglia dei 40 mila, e scegliere come sede della nuova camera quella alla quale fanno capo più imprese. Un criterio economico, che svincola il destino delle camere da quello delle province. Sembra facile, ma non lo è. Proprio nella sua regione Piacenza lotta per la sopravvivenza in nome di tradizioni risalenti all’impero romano, e i quattro ex-capoluoghi che saranno accorpati nella nuova provincia romagnola si contendono la camera di commercio a mo’ di compensazione per l’onta subìta.
E se si allarga lo sguardo, si vede che quel criterio numerico terrorizza una buona quantità di camere, in giro per l’Italia: quelle sotto la soglia delle 40 mila imprese sono ben 37. E la maggior parte di esse è anche in condizioni di squilibrio economico (vedi cartina a pagina 144), dunque ha più uscite che entrate. «Noi siamo sopra la soglia, e da poco siamo anche in equilibrio economico», si dice sicuro del fatto suo Pasquale Lamorte, presidente della Camera di commercio di Potenza, che dovrebbe incorporare anche quella di Matera. Matera però resiste e la regione Basilicata ha preso una posizione molto dura contro i tagli delle province. Certo, «se la cosa andrà avanti si tratterà di mantenere un presidio territoriale anche a Matera», dice Lamorte. Ma non è detto che agli scontenti basti mantenere un piccolo presidio. Il presidente della piccolissima Camera di commercio di Isernia, Luigi Brasiello, vuole ben più: «Le imprese hanno bisogno di noi. Possiamo accorpare alcune funzioni, anche tagliare i consigli camerali, ma proponiamo di lasciare in piedi le giunte, e mantenere una presenza sul territorio». Cioè la sede e i dipendenti: «Che facciamo, li mandiamo tutti a Campobasso?».
Nel Lazio poi, dove è in bilico Rieti, qualcuno propone di fermare tutto, visto che uno degli ultimi atti della giunta morente della Polverini è stato quello di impugnare la legge taglia-province. Anche Formigoni ha puntato i piedi sulla mappa delle nuove province lombarde, che dovrebbero quasi dimezzarsi, da 12 a 7-8. Lasciando nell’incertezza le piccole Camere di commercio della regione, come Sondrio, Cremona, Lecco, Lodi. Qui sta prendendo piede un’altra soluzione: «Noi siamo per mantenere l’identità territoriale tra camera di commercio e provincia», dice Alessandro Zucchetti, presidente della camera di commercio di Lodi, nata nel ’92 per distacco da Milano e adesso in predicato di sposarsi con Cremona. Sempre che non salti tutto e che tutti siano d’accordo; anche la recalcitrante Monza, che protesta a gran voce: infatti come provincia è in via di sparizione ma, avendo un’altissima densità di attività economiche, come camera di commercio gode di ottima salute.
Intanto le grandi camere evitano di alzare la voce, ma vorrebbero che la situazione si sbloccasse. «Il criterio delle 40 mila imprese è ragionevole, dobbiamo accelerare le fusioni per liberare risorse», dice Pier Andrea Chevallard, che da Milano si appresta a guidare una supercamera modellata sulla città metropolitana. «Capisco che ci saranno difficoltà, ma dobbiamo mirare a strutture più efficienti per le imprese». Che poi alla fin fine sono quelle che pagano ogni anno il loro obolo alle camere, e magari vorrebbero alleggerirlo un po’.
La questione viene posta apertamente ormai nel mondo delle imprese e anche da qualche rappresentante delle camere. «L’attuale tassazione non è più sostenibile», dice Zucchetti, presidente della camera di Lodi. Che avanza la proposta di un taglio del 10 per cento dei contributi delle imprese alle camere: «Per questo, comunque vada a finire la partita dei nuovi confini, è necessario accorpare alcune funzioni e ridurre i costi».
Insomma, un rebus. O meglio un puzzle, con tanti pezzi da incastrare quante sono le vecchie e nuove camere di commercio italiane. La soluzione andrà trovata in questi giorni, con riunioni, trattative, documenti che già viaggiano da una città all’altra, con un occhio al mondo delle imprese e un altro alla politica. La sintesi finale sarà trovata in un’assemblea a fine mese a Venezia: cornice splendida ma anche un po’ costosa, per 105 presidenti in cerca della loro spending review.