Federica Bianchi, l’Espresso 25/10/2012, 25 ottobre 2012
SBRIC E LE QUATTRO SPERANZE DI DOMANI I QUATTRO GRANDI DI IERI [
Brasile, Russia, India e Cina hanno corso al galoppo per dieci anni. Poi hanno rallentato e adesso rischiano addirittura lo sboom. Tanto che gli investitori esteri cercano nuove mete] –
Poco più di un anno fa, all’apice della propria ascesa, Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica scrivevano un comunicato congiunto con cui rifiutavano la nomina di Christine Lagarde alla guida del Fondo monetario internazionale, spiegando che «un’adeguata rappresentazione dei paesi emergenti alla guida del fondo era critica per la sua legittimità ed efficacia». Oggi gli economisti si domandano se i quattro paesi (più il Sudafrica) che nel 2001 furono raggruppati sotto l’acronimo Bric (che suona come mattone in inglese) da Jim O’Neill di Goldman Sachs e che sono stati i fuoriclasse dello sviluppo economico dell’ultima decade, non abbiano raggiunto il capolinea della crescita.
Il loro prodotto interno lordo ha smesso di fare balzi da gigante da due anni e i mercati finanziari globali non li venerano più come i paesi della Cuccagna. Peccato, perché, nonostante le paure di una futura sudditanza economica, sui Bric il mondo occidentale aveva riposto le speranze di un recupero dell’economia mondiale. «In realtà la crescita economica del decennio passato è stata eccezionale», spiega Ruchir Sharma, l’economista di Morgan Stanley autore del recente best-seller "Nazioni di successo: alla ricerca dei prossimi miracoli economici": «Mai nella storia così tanti paesi sono cresciuti all’unisono».
Dei 180 paesi presi in considerazione dall’Fmi, nel 2007, anno del massimo splendore dell’economia mondiale postbellica, soltanto tre avevano un’economia in contrazione, quando normalmente circa un quinto del mondo ha un Pil negativo e solo un terzo mette a segno una crescita superiore al 5 per cento. «Adesso l’eccezionalità è terminata e anche i Bric, come le economie sviluppate, dovranno abituarsi a una "nuova normalità"», sottolinea.
I segni di rallentamento sono evidenti in almeno tre dei quattro paesi "eccezionali". L’economia della Cina, la nazione che più di qualsiasi altra è riuscita a cambiare in vent’anni l’equilibrio economico mondiale e che nel farlo ha sollevato 200 milioni di persone dalla povertà, arricchendone almeno altrettante, per la prima volta in 12 anni crescerà quest’anno a un tasso inferiore all’8 per cento, la soglia ritenuta necessaria per evitare il ristagno economico del Paese. Non una tragedia, certo, ma un dato importante, che rappresenta una battuta d’arresto politicamente rischiosa per un regime dittatoriale tollerato ancora solo grazie ai miracoli del passato, ed economicamente significativa se presa nel contesto degli ultimi cinque anni. Nel 2007 il Pil cinese raggiunse il 14,2 per cento. Da allora, complice il brusco rallentamento delle esportazioni e i ritardi nell’aumento della domanda interna che avrebbe dovuto controbilanciare i minori consumi occidentali, è sceso fino ad attestarsi quest’anno poco sopra il 7,5 per cento. Se poi si considera che i salari sono aumentati rapidamente, che la popolazione sta invecchiando e che la popolazione è sempre più scontenta del regime corrotto che la governa, allora il futuro appare decisamente poco raggiante.
L’India, il secondo gigante dei quattro e il paese più simile strutturalmente alla Cina, sulla scia della rivoluzione di Internet e dell’enorme iniezione di liquidità mondiale post 2001 era passata improvvisamente da tassi di crescita intorno al 5-6 per cento a balzi del dieci per cento nel 2010. Le speranze degli economisti erano che potesse rappresentare la versione democratica del fenomeno economico cinese. Fu coniato il binomio Cindia, l’eccellenza asiatica. E invece, con il rallentamento mondiale e la mancanza di riforme, si è ritrovata a essere lo stesso paese di sempre, alle prese con i problemi storici: inflazione a due cifre, inattività della politica, sistemi infrastrutturali e burocratici obsoleti, ostilità verso qualsiasi tipo di privatizzazione.
Anche per il Brasile la situazione è difficile: l’economia sta crescendo a un tasso dell’1,5 per cento, infimo rispetto a quel fantastico 7,5 per cento raggiunto nel 2010, anno in cui Rio de Janeiro si aggiudicò le Olimpiadi del 2016, che spinse gli economisti a prevedere per il gigante sudamericano un balzo al quinto posto nella classifica dei i paesi più ricchi del mondo. Invece, sulla scia del rallentamento della Cina, primo paese di riferimento per le sue esportazioni di materie prime, e sotto la pressione dell’aumentato costo della vita, fatica a tenersi stretto anche quel settimo posto in classifica, subito dietro la Russia, che, per il momento, è l’unico "mattoncino" ancora in piedi.
Come struttura economica, Mosca è più vicina ai paesi del Golfo, con le loro economie a base di petrolio e sussidi pubblici, che non alla Cina o all’India, dove gli investimenti esteri e le esportazioni sono stati il motore dello sviluppo. E visto che i prezzi del petrolio non mostrano di voler scendere al di sotto della soglia dei 100 dollari a barile, il Cremlino non ha ancora dovuto confrontarsi con un serio rallentamento e con una ristrutturazione del sistema economico che porterebbe inevitabilmente a una diversificazione industriale. In compenso, a fare paura agli investitori esteri è il rischio politico, un elemento questo che, con gradi diversi, connota tutti i Bric. Dalla terza elezione di Vladimir Putin a presidente l’anno scorso, il paese è scosso da manifestazioni più o meno pacifiche a ritmo intermittente. Il malcontento della borghesia russa cresce. E se mai il leggero rallentamento delle esportazioni petrolifere (tradotto quest’anno in una diminuzione del tasso di crescita del Pil dal 4,3 a meno del 4 per cento) dovesse trasformarsi in caduta netta, allora gli eccessi da fine impero degli oligarchi russi diventerebbero velocemente un lontano ricordo.
Si tratta di un’ipotesi da non sottovalutare, almeno a osservarla dall’altra sponda dell’Oceano. La recente scoperta di immensi giacimenti di gas naturale negli Stati Uniti potrebbe portare il secondo produttore mondiale di Co2 a diventare autosufficiente per l’energia nel giro di cinque anni. Già in soli 12 mesi la produzione Usa di gas è aumentata del 40 per cento, riducendo il consumo locale di carbone e petrolio, e il prezzo mondiale del gas: una situazione così rivoluzionaria, nello statico panorama energetico, da indurre gli analisti di Citigroup a parlare del Nord America come di un "nuovo Medio Oriente".
Infine c’è il Sud Africa. O’Neill non lo aveva inserito tra i Bric originari perché le dimensioni dell’economia non lo permettevano. Ma il paese, un po’ per "orgoglio africano" (è pur sempre l’economia più avanzata del Continente Nero) e un po’ per sintonia politica in chiave anti occidentale, ha partecipato agli ultimi due summit dei Bric e ospiterà il prossimo nel 2013. In ogni caso, se per Bric consideriamo i paesi su cui sono state riposte le speranze del successo economico negli ultimi dieci anni nonostante un sistema politico inefficiente o dittatoriale, allora il Sud Africa vi rientra a pieno titolo. E la sua situazione è poco rassicurante: la crescita dell’economia è al di sotto del 3 per cento, gli stranieri si stanno ritirando dalle miniere dopo che ne è stata messa in agenda la nazionalizzazione e migliaia di lavoratori sono in sciopero. Soprattutto, non solo il divario tra ricchi e poveri si è allargato da quando il presidente Zuma ha preso il potere tre anni fa, ma rispetto al 1994, anno in cui terminò l’Apartheid, i cittadini neri sono oggi più poveri dei bianchi.
Tutto ciò vuol dire che la sigla Bric non era niente più di uno slogan? Non necessariamente. Gli economisti concordano che i Bric continueranno a crescere in questo decennio, anche se con tassi e percorsi economici sempre più differenziati. Ora che hanno raggiunto un maggior grado di sviluppo e una correlazione diretta con le grandi economie, dovranno fare più affidamento sulla domanda e sulle infrastrutture interne che non sull’afflusso di capitali esteri, più attratti da altri lidi.
Nuovi paesi sono emersi come speranze. E un nuovo acronimo è stato coniato: Mist, ovvero Messico, Indonesia, Corea del Sud e Turchia. Sono i paesi più grandi tra i nuovi 11 identificati da O’Neill come le prossime storie economiche di successo. Tra loro ci sono paesi scommessa come Pakistan e Bangladesh, ma anche nazioni da tempo in marcia come Vietnam e Filippine. Tutti hanno un tratto in comune: una popolazione povera e giovane pronta a rimboccarsi le maniche, come quella cinese di vent’anni fa. Nessun paese, nemmeno un Bric, può crescere per sempre a tassi astronomici solo grazie a una serie di circostanze esterne favorevoli. Come dicevano i latini, quando il vento smette di soffiare, è il momento di cominciare a remare.