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 2012  ottobre 25 Giovedì calendario

SAPIENS, MA SOPRATTUTTO CATTIVO [

Un grande scienziato spiega la nascita e il destino dell’umanità. E ci mette in guardia da un rischio: che l’homo diventi sempre più aggressivo] –
Cinquantamila anni fa - una briciola di tempo rispetto alla lunga storia evolutiva dell’uomo - l’Homo sapiens e altre specie umane si contendevano la supremazia per la sopravvivenza sulla Terra, così come avevano fatto i loro predecessori per milioni di anni. Poi, qualcosa di inspiegabile, di unico, ha fatto sì che i primi avessero la meglio, e gli altri si estinguessero. Un sopravvento dovuto a favorevoli caratteristiche fisiche, a più sviluppate capacità cerebrali, a fattori ambientali? O, ancora, a una serie di cambiamenti evolutivi determinati dal caso, indicati spesso come "deriva genetica"? Insomma, che cosa ha consentito ai rappresentanti dell’Homo sapiens di diventare padroni del pianeta? È il tema di "Masters of the Planet", l’ultimo saggio di Ian Tattersall, paleontologo e curatore del Museo di Storia Naturale di New York, in questi giorni ospite d’onore al Festival della Scienza di Genova.
Attraverso l’esame dei reperti fossili, il grande paleontologo ci aiuta a capire che cosa abbia reso la nostra specie insuperabile: dalla posizione eretta al linguaggio, dall’intelligenza all’espressione simbolica, testimoniata dai dipinti su soffitti e pareti delle grotte di Altamira in Spagna e Lascaux in Francia. «Un connubio di pensiero raffinato e vita primitiva di individui, raccoglitori-cacciatori senza fissa dimora, che vissero nel culmine dell’ultima era glaciale, 35 mila anni fa, con inverni interminabili», scrive Tattersall, cui abbiamo chiesto di condurci in questa "ricerca sulle nostre origini umane", sottotitolo del suo libro, in uscita nel 2013 con Codice.
L’albero genealogico dell’uomo anatomicamente moderno ha radici in Africa?
«Quell’albero è "nato" in Africa e sono passati milioni di anni prima che si trovassero tracce sicure che l’uomo moderno è riuscito a evadere dai confini del continente. A lungo si è creduto che i nostri primi spostamenti verso l’Eurasia dovessero essere stati favoriti da una acquisizione straordinaria, come un cervello più sviluppato o una più efficiente tecnologia. Ora la faccenda risulta più complessa: la prima dispersione del genere Homo dall’Africa, ci dicono i reperti fossili, sembra risalire nientemeno che a 1,8 milioni di anni fa, o forse più. La città medievale di Dmanisi, in Georgia tra il Mar Nero e il Mar Caspio, è l’ultimo posto in cui avremmo pensato di recuperare fossili di uomini antichi, ma è stato così. Poco prima che questi resti venissero datati a 1,8 milioni di anni fa, nell’isola Giava, in Indonesia, si sono trovati reperti attribuibili a Homo erectus, paragonabili ad altri trovati in Africa Orientale. Tutte queste osservazioni pongono fine alla disputa sull’uscita di esemplari del genere Homo dall’Africa: è avvenuta molto tempo prima di quanto si pensasse».
La mappatura del genoma dell’uomo di Neanderthal, che i reperti fossili datano a 30 mila anni fa, e più di recente, dell’uomo di Denisova, vissuto 41 mila anni fa, possono modificare le nostre idee sull’evoluzione?
«Penso proprio di no. Non credo per esempio che dalla conoscenza dello scambio genetico fra i Neanderthal, e i Sapiens si possano trarre deduzioni significative di tipo biologico. L’analisi del Dna mitocondriale (ereditato per via materna) indica l’esistenza di un antenato comune per la forma del genere Homo scoperta a Denisova, per il Neanderthalensis, e il Sapiens. Dal punto di vista genetico sono molto simili, e ciò non stupisce, hanno infatti grosse porzioni di Dna e di storia evolutiva in comune. Hanno compiuto un pezzo di cammino assieme, le loro vite si sono senz’altro incrociate, ma il profilo genetico ricavato dal team di Svante Pääbo, antropologo al Max Planck Institut, non chiarisce enigmi come quello dell’estinzione dei Neanderthal. Di certo, l’interbreeding tra questi ominidi non ha influito sulla futura traiettoria della nostra specie».
Grazie alla genetica che cosa si è appreso?
«Che gli stessi geni o famiglie di geni possono influenzare la struttura di organismi del tutto diversi, come un essere umano e un moscerino della frutta. La forma di ogni creatura vivente non riflette solo la struttura dei suoi geni».
Che cosa ci ha reso tanto diversi dai nostri parenti più prossimi, i primati, con cui condividiamo il 98 per cento del genoma?
«Guardi in faccia uno scimpanzé e lo fissi negli occhi. La nostra reazione può essere forte e confusa, ma non ci restituisce, come in uno specchio, la nostra bestialità, semmai ci dà conferma delle profonde basi biologiche su cui si fondano civiltà moderna, e creatività. Ci vedrete molto di voi stessi in quegli occhi, ma questo dipende unicamente da voi, non dallo scimpanzé. Lui non sa articolare il suo stato mentale o darsi risposte. Nonostante le differenze fisiche, se solo potesse parlare sarebbe come uno di noi, ma non possiede questa facoltà. Condividiamo con i primati degli antenati comuni neanche tanto lontani che probabilmente vissero 7 milioni di anni fa. Se non ci fossimo evoluti, i primati sarebbero stati di certo gli animali cognitivamente più complessi: vivono in società, litigano, fanno la pace, mentono, uccidono, costruiscono attrezzi… Eppure noi non siamo una versione "migliorata" di loro. Ma una presenza senza precedenti sul nostro pianeta, non solo per anatomia ma anche per potenziale cognitivo».
Il nostro cervello possedeva già questa capacità di elaborazione?
«Probabilmente sì, ma si è manifestata tardi. Eppure le dimensioni del cranio erano aumentate raggiungendo quelle attuali molto tempo prima. È uno di quei casi di "exaptation", per usare un termine di Stephen J. Gould, che ha rivisitato la teoria evoluzionistica. Un’exattazione o un preadattamento (che si unisce al concetto di "adattamento"): significa che un carattere evolve per una certa funzione ma poi ne assume un’altra, diversa da quella di partenza, come le piume che gli uccelli si ritrovano prima che le usino per volare. Non un cammino graduale verso una sensibilità umana unica, ma qualcosa che interviene d’improvviso nella storia evolutiva, forse innescato dalla comparsa del linguaggio».
Che tipo di evoluzione possiamo immaginare in futuro?
«È naturale guardare al passato e dire: abbiamo fatto un lungo cammino evolutivo, il nostro cervello è più sviluppato e la struttura corporea è radicalmente diversa da quella di qualsiasi altra creatura al mondo, ci siamo evoluti in tempi relativamente brevi e l’aspettativa è di proseguire. Ma non si tiene conto dello scenario demografico. Nell’evoluzione biologica perché un cambiamento genetico avvenga e si consolidi occorrono due cose: popolazioni di piccole dimensioni e sparpagliate. È stato così sino all’ultima era glaciale. Poi, verso la fine, i nostri antenati hanno smesso di migrare, sono diventati stanziali e sono cresciuti di numero. Oggi sulla faccia del pianeta sono ammassati sette miliardi di individui e non ci sono le condizioni perché si instaurino novità evolutive».
Neppure se intervenissero cambiamenti ambientali?
«Certo ci potrebbe essere l’impatto di un asteroide come quello che ha portato all’estinzione dei dinosauri, un disastro nucleare causato dall’uomo o qualcosa che frammenti di nuovo la popolazione. E se dovesse accadere, si potrebbero riavere le condizioni per potenziali cambiamenti evolutivi. Ma ora non è così. La sola probabile (quasi sicura) seconda evoluzione è culturale, una trasformazione che le innovazioni tecnologiche hanno reso estremamente rapida. Un’evoluzione non unidirezionale, che si muove secondo regole diverse. Non faccia a faccia, come noi ora, ma indirettamente e "subdolamente" attraverso la tecnologia. Perché noi non vediamo con chi comunichiamo, e quindi lo facciamo senza porci alcuna remora. Tuttavia, se siamo davvero "sapiens", non possiamo che evolvere tecnologicamente. Ma se evolviamo in modo aggressivo, come possiamo constatare avviene ogni giorno, rischiamo di diventare "cattivi padroni" del pianeta. Il futuro dipenderà dalla capacità dell’uomo di esplorare il potenziale che già possiede nel cervello e usarlo per evitare il peggio».