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 2012  ottobre 25 Giovedì calendario

È FINITA LA CUCCAGNA

[Milano dalla cultura all’affarismo. Con Formigoni che si crede principe. Parla il Nobel: "Sento arrivare il grande crollo"] –
È un Dario furioso, quello che "l’Espresso" intercetta tra Umbria e Romagna nei giorni caldi del doppio tramonto di Roberto Formigoni e delle virtù lombarde. Dario Fo, dall’alto dei suoi anni 86, è in vena di cupezze, più che di lazzi e sghignazzi. Al lecchese Formigoni che si crede da vent’anni principe di Lombardia, il premio Nobel di San Giano (Varese), non le manda a dire. E neanche alla Milano già sobria, operosa, illuminata che lo ha accolto e, oggi lo si può dire, nutrito in abbondanza.
Un ventennio di inurbati di potere, a Milano: Berlusconi, Bossi, don Verzè, Dell’Utri, Formigoni. Ma dopo la gloria i dolori.
«Nel sistema Formigoni colpisce la politica intesa come chiesa, di adepti e di affiliati. Un’imposizione in totale antitesi, storica e culturale, con la Milano dello spirito ambrosiano».
Partiamo alti. Ce lo può spiegare?
«Milano, il comune e la sua Chiesa si sviluppano, con i loro riti, religiosi e mercantili, in autonomia da Roma e dal pontefice. Di questo c’è traccia ancora oggi. Formigoni e don Verzè sono corpi estranei allo spirito di Milano. Basta rileggersi il monito di Sant’Ambrogio ai potenti dei suoi tempi, quando si scaglia contro la cupidigia e l’avidità, in particolare di chi ricopre cariche pubbliche, dimenticando i deboli, gli infermi, i prigionieri. Anche nel Manzoni, nei "Promessi sposi" risuona l’indignazione contro i soprusi e le prepotenze. Nel Ventunesimo secolo Formigoni e la sua rete ciellina ci ha imposto una chiesa politica dell’affarismo tra amici e iniziati».
Quando si è inurbato lei, che veniva dai laghi lombardi come il presidente, che Milano aveva trovato?
«Milano produceva, negli anni Sessanta, una vivacità culturale straordinaria. Compagnie teatrali, la scena artistica, la satira, il Piccolo e l’Umanitaria, la Triennale e la Palazzina Liberty, gli editori, la musica nuova, i fermenti nelle università. Si facevano affari, sì, ma non era affarismo da cricca. Si respirava un fervore, un’apertura internazionale, una grande intelligenza diffusa. Si allargava la cultura a chi ne era privo, alle periferie operaie, studenti e lavoratori dialogavano in modo nuovo. Io andavo in Francia, e c’era grandissimo rispetto per Milano. Non è un caso che questo fervore della nostra città fu interrotto dalla violenza, la violenza politica. Quando portai in Francia "Morte accidentale di un anarchico" suscitammo insieme ammirazione e stupore».
Dove identifica il punto di passaggio dalla Milano di Mattioli e Strehler a quella di Daccò e Zambetti?
«Dovrei dire: Tangentopoli, l’inchiesta Mani pulite. Ma suona ovvio. Il passaggio vero fu un altro. Ben prima».
Quando?
«Piazza Fontana. Il 1969. L’epoca delle stragi, dei servizi deviati. È il momento in cui il fervore, l’audacia, gli esperimenti politici e sociali di Milano vengono silenziati. La prima grande violenza degli anni Settanta esplode a Milano, non a Roma».
Certo che Milano ha a lungo snobbato la politica, investendo poco in un ceto dirigente pubblico di livello. E quando ha espresso leader, sono stati outsider carismatici di enorme impatto: Mussolini, Craxi, Berlusconi.
«No, no, così non si può dire. Milano non ha snobbato la politica: gli anni Sessanta furono un grande esperimento politico. C’è una componente megalomane in certe figure, questo sì. Il cupolone del San Raffaele che scimmiotta quello di San Pietro, il Palazzo Lombardia da 500 milioni. Il primo edificio di governo dai tempi del Castello Sforzesco, si vanta Formigoni. Ma il Castello non era lo spazio dell’egemonia dei cittadini, tutt’altro, era la forma del potere del principe, compresi i soprusi».
Qualcuno ha definito Formigoni un Joker. Lei che maschera gli attribuisce?
«Io lo vedo come un personaggio del passato, da commedia del Cinquecento, da teatro elisabettiano. Nell’"Amleto" le lotte di potere nel regno di Danimarca erano copiate da intrighi italiani...».
È re Claudio a parlare del «corrotto andazzo del mondo».
«Appunto. Formigoni si crede principe. In realtà è un gran dritto con una prosopopea shakespeariana. Uso il paragone perché questo è un passaggio storico, in Lombardia e in Italia dopo vent’anni di Berlusconi. È un passaggio storico e lo capiremo nei prossimi mesi».
Si aspettava che un consigliere lombardo comprasse pacchi di voti dalla ’ndrangheta?
«Tutto mi aspettavo meno che la politica a Milano finisse nello sterco mafioso. La politica a disposizione della ’ndrangheta. Ho sentito un’amara battuta: chi soffre di più in questo momento? Cosa nostra, che si sente scavalcata, non c’è più rispetto».
Giornalisti, figure come Nando Dalla Chiesa o Giulio Cavalli segnalavano da anni l’aggressività del fenomeno.
«Poco ascoltati. È verissimo».
Mentre il ministro Severino, dell’assai prudente governo Monti, parla di "nuova Tangentopoli", e anche più grave.
«Perché è tutto più complicato. Il dio denaro ha trasformato le cure ospedaliere in un affare roboante. Don Verzè, i ciellini, le fondazioni amiche: oggi ti salvo la vita e domani ti garantisco la vita eterna, e intanto appalti, regalie, consulenze, percentuali, lasciti. Un trionfo di arroganza e megalomania. Per tacere degli imprenditori che offrono le vacanze tutto incluso al presidente della maggior regione italiana».
Formigoni dice: abbiamo la sanità migliore d’Italia, amministriamo bene.
«E bravo! In una civiltà dell’arraffo un buon amministratore diventa un santo. È la sanità migliore se confrontata con la Calabria. Ma la Lombardia si deve confrontare con la Francia, con la Germania. Lasciamo stare, che ho la raucedine, son senza voce».
Un’ultima cosa. Il sindaco Giuliano Pisapia prende le distanze dal governatore, auspica la rivolta della società civile. Toni irrituali, nel teatrino politico: i due gestiscono insieme l’Expo 2015. Lei crede ancora nella società civile?
«Pisapia è un uomo di coraggio. Ha vinto le elezioni senza grandi appoggi, e inizialmente ostacolato dal Pd. L’appello alla società civile è un bel segnale. Ma io lo vedo anche frenato dalla macchina comunale».
Cosa vuol dire?
«È frenato da una macchina imbottita di figure cresciute nel ventennio della destra e della Lega. In tanti sono ancora lì. È un bell’handicap. Pisapia cammina con i piombi ai piedi».
Che cosa si aspetta a breve?
«Ah, a me ormai viene in mente anche la torre di Babele...».
Cioè?
«Sento arrivare il grande crollo. Non c’è solo Formigoni. In questi giorni assistiamo a mosse e mossette. Maroni dice votiamo ad aprile? Allora lo anticipo, dice l’altro, votiamo a gennaio! No, febbraio. La Lega dentro? La Lega fuori? Tutto un far battute da opera buffa. E i sorrisi, ha visto quanto sorridono, tutti quei maneggioni? Un linguaggio da "Le Roi s’amuse", il Re si diverte, il buffone denuncia, e poi arriva la censura. Le Roi s’amuse, eccome se s’amuse. Ma io dico che è finita la cuccagna».