Antonio Pilati, Foglio 19/10/2012, 19 ottobre 2012
COMPRARE TEMPO NON BASTA
[La crisi strutturale non è risolta, forse si dovrà rivedere l’euro] –
La promessa estiva della Bce di acquistare in quantità debito pubblico degli Eurostati pericolanti in modo da frenare la corsa dei rendimenti, ormai giunta a soglie disgreganti, ha ottenuto l’effetto richiesto: i mercati si sono raffreddati e, grazie al concorso anche di altri fattori (la sentenza della Corte di Karlsruhe, la vittoria dei partiti europeisti nei Paesi Bassi), si è comprato tempo prezioso. Ma tempo per fare cosa?
A prima vista appaiono almeno tre urgenze alle quali si può applicare il tempo guadagnato. L’urgenza più evidente riguarda la meccanica istituzionale dell’euro: come coordinare la moneta unica sia con un sistema bancario vigilato su scala nazionale e anzi sempre più funzionante – causa crisi – in tale dimensione sia con 17 debiti pubblici differenziati per storia struttura e grado di fiducia ma comunque in crescita. La seconda urgenza è centrata sulle dinamiche dell’economia: gli squilibri fra i diversi paesi aumentano quando i tassi di interesse continuano a divaricarsi e in un solo punto si concentra, togliendo domanda alle altre economie euro, un grande surplus (la Germania genera un avanzo superiore a quello della Cina sia in termini assoluti sia in rapporto al pil: 5,4 per cento contro 2,3 per cento). Tutto ciò porta al risultato controintenzionale di una moneta unica che amplia l’eterogeneità dell’area in cui è utilizzata. La terza urgenza ha valenza politico-istituzionale e si colloca al rango di metalivello: il suo tema è l’articolazione fra elementi e organi del complicato sistema istituzionale europeo (area a 17, area a 27 e poi a 28, Bce, Esm, Commissione, Consiglio), la selezione dei decisori di configurazione (chi stabilisce le modifiche da apportare all’architettura di sistema, come viene scelto, a chi risponde), l’aggancio alle dinamiche di scelta della democrazia.
Per ora corre la liquidità della Bce, ma nel film delle riforme istituzionali cominciano appena a scorrere i titoli di testa. Gli accordi sul funzionamento del Fondo salva-stati Esm sono rimessi in discussione poche settimane dopo essere stati varati. La scelta di affidare alla Bce una penetrante vigilanza bancaria non ha ancora definito il proprio raggio d’azione (tutti gli istituti o solo i maggiori), suscita dissenso negli Stati Ue non euro e sembra avere tempi lunghi di rodaggio. La Tobin tax sconta l’ostilità britannica e introduce una ulteriore differenza nell’assetto delle attività finanziarie in ambito Ue. Il Regno Unito sceglie così di ritirarsi ai margini dei processi di integrazione e marca distanza dalle istituzioni Ue: per farlo nega l’adesione al maxi-budget pluriennale proposto dalla Commissione. Infine il nesso stringente che lega gli aiuti Esm a condizioni vincolanti relative alle strategie di bilancio degli Stati riceventi crea incertezza e aumenta la turbolenza politica: la perdita di sovranità implicita nell’accettazione delle condizioni provoca in Spagna (ma anche a Cipro) instabilità, lacerazioni sociali, traccheggiamenti e tempi lunghi. In Grecia la pièce ha già avuto molte repliche (durano ancora: si discute con quali tempi uno stato fallito debba applicare misure di rigore), in Italia si sa che prima o poi sarà in cartellone e sotto traccia si ragiona sulla messa in scena (e sull’ampiezza dei guai che l’accompagnano).
In una fase politica che richiede progetti inclusivi a lungo raggio e rapidità di riflessi decisionali prevale lo stile collaudato della politica europea: tempi diluiti da rinvii e ripensamenti, arabeschi tattici, rimpalli tra istituzioni, dominio degli interessi di breve respiro. Il tempo comperato rischia di sfrangiarsi in una rincorsa di date falsamente cruciali: elezioni americane, avvio formale dell’Esm, elezioni italiane e poi tedesche, avvio operativo dell’Esm. Non è indolenza politica o scarsa visione dei decisori, come spesso si dice con formule consolatorie: al fondo stanno ruvidi grovigli che legano l’azione europea da oltre dieci anni (all’inizio del secolo l’agenda di Lisbona aveva l’ambizione di trasformare quella europea nell’economia più competitiva del mondo entro il 2010). A prima vista si scorgono divergenti interessi geostrategici degli stati, opinioni pubbliche ripiegate sulla dimensione nazionale o regionale, calcoli di politique politicienne fatti dai partiti e dai leader. A uno sguardo attento si rivelano divaricazioni strutturali nell’assetto dell’area economica definita dalla moneta comune e soprattutto ostacoli demografici di lungo periodo: i modelli di welfare cui da mezzo secolo è abituata la gran parte dei cittadini europei non hanno chance di mantenersi con gli attuali decorsi della natalità (in costante calo) e delle aspettative di vita (in crescita esplosiva).
La prima e maggiore divergenza strategica apportata dalla crisi riguarda la Germania: essendo l’unico fra i grandi paesi europei che già prima del 2007 aveva (in parte) messo a posto i conti pubblici e migliorato la produttività, è anche il solo a ottenere vantaggi rilevanti dall’incertezza dei mercati: mentre gli altri stati, soci e/o rivali, finiscono a terra o in gravi difficoltà, la Germania si qualifica come l’unico soggetto forte e affidabile dell’Eurozona guadagnando afflussi di capitale (provenienti soprattutto dal dissestato orlo mediterraneo), tassi di interesse azzerati, stabile primato politico nelle istituzioni dell’Unione. Una tale condizione agevola il conseguimento di quell’obiettivo di lungo termine (stabilizzare un’economia quasi-continentale con forte marca germanica) che a Berlino risulta primario da quando la rivoluzione digitale, che minimizza tempi e costi di transazione, e l’emergere dei mercati globali, che ne è l’effetto connesso, hanno reso la dimensione un fattore determinante (come gli Usa anche i Bric hanno, uno per uno, larghissima stazza). Per la Germania, che da tempo focalizza la sua strategia economica su Cina e Russia anche a costo di tensioni con gli Stati Uniti, un’area di comando politico e monetario è un mezzo cruciale per avere peso su scala mondiale e porsi come interlocutore paritario. E’ normale in politica trarre da una situazione favorevole tutti i vantaggi possibili e posporne, per quanto si riesce, la fine; una buona crisi, se si sta dal lato giusto, offre eccezionali opportunità: spezzoni del sistema industriale o finanziario dei paesi deboli offerti in saldo; guida ideologica rafforzata grazie all’esempio; classi dirigenti estere facilmente fidelizzate. Non è difficile spiegare in una congiuntura di questo tipo i rinvii, gli accordi fatti e poi volatilizzati, i ripensamenti: tutto ciò che prolunga uno stato di sofferenza (per gli altri) e di utile (per sé) ha significato.
Nella divergenza delle strategie la Francia si colloca dallo stesso lato della Germania: l’illusione di un comando continentale alla pari (Hollande, che la sera stessa dell’insediamento vola a Berlino contrastando i fulmini, non è in ciò diverso da Sarkozy) conta più dell’aggravio dei costi da crisi che lo sbilenco assetto dell’Eurozona fa pesare anche su Parigi. Dal lato degli svantaggiati si collocano invece, a gradi diversi, il Regno Unito, con la parte non euro del Nord e dell’Est, e i paesi euro del Mediterraneo. L’area non euro patisce su di sé vincoli (vigilanza bancaria) pensati da altri e, in varia misura, ricadute recessive: i britannici, che hanno più chance di reazione, accelerano sulla via del distacco, gli altri si mettono in aspettativa. I paesi del Mediterraneo, che vivono una recessione specialmente pesante a causa di remoti difetti strutturali e la aggravano con misure di rigore da applicare a tempi stretti, sono i principali sconfitti: perdono autonomia e dignità politica, patiscono una rapida contrazione del sistema industriale e finanziario, vedono separarsi dalle classi dirigenti gruppi sempre maggiori di cittadini. Anche qui sono naturali resistenze, diversivi, finzioni: la confusione generale deriva, alla fine, dal divario fra intenti dichiarati (per lo più nobili) e azioni concrete (di egoistico realismo).
Le opinioni pubbliche pesano: con l’Europa che sempre più nella mentalità collettiva dei vari paesi si associa alla recessione, i programmi di riparazione degli assetti istituzionali, di solito delineati come progresso dei processi di integrazione, sono sempre più difficili da vendere. Giuliano Amato, citando Delors, sostiene che l’Europa è sempre andata avanti “con una maschera sul viso”, ovvero con i leader politici che cedevano sovranità nazionale senza dirlo ai propri elettori (nazionali); ora però l’opinione pubblica, toccata sul vivo, si è fatta attenta e da una benigna indifferenza sta passando a un attivo rigetto. L’astuzia della maschera non funziona più, la pressione sui leader si è fatta acuta e tutti, in vista delle elezioni, difendono solo interessi percepibili nell’immediato.
I grovigli strategici ed elettorali non si risolvono con la buona volontà o con la fantasia: a renderli intricati e intrattabili sono fattori strutturali. Si combinano, intrecciandosi sotto la pressione del debito, i difetti di impianto dell’euro e l’affanno contabile dei sistemi pubblici. L’Eurozona si è rivelata, sotto il fuoco della crisi, una costruzione a somma zero, il contrario di un’idea win-win: se guadagnano i tedeschi, che giocano in casa (il modello con cui ci si misura l’hanno montato loro), perdono italiani e spagnoli. In un’area a moneta unica, caratterizzata da forti divari di produttività e di efficienza istituzionale tra i paesi componenti ma priva di una gestione comune del debito sovrano, i paesi debitori, pressati da un cambio troppo alto (trainato dalle economie forti) e compressi da un debito che il mercato rilutta a finanziare (se non a prezzi esosi), vedono le proprie economie precipitare per mancanza di ossigeno in una spirale al ribasso, mentre i paesi creditori allineano afflussi di capitale (in uscita dai debitori), tassi di interesse favorevoli e quindi competitività in crescita. Economie che si divaricano faticano nel tempo a mantenersi in un ambito comune: nell’attuale architettura dell’euro il debito, che nella crisi catalizza sfiducia, diventa il reale fattore disgregante in quanto, amplificando le spinte dei fondamentali, indirizza economie disomogenee, che in tempo di crescita e quindi di fiducia possono muoversi in parallelo, su percorsi divergenti.
Il dato drammatico è che oggi – e ancor più nei prossimi anni – la demografia sospinge il debito pubblico. Sanità e previdenza scricchiolano non solo per l’allungamento della vita e il calo di natalità ma anche per le crescenti differenziate (e costose) chance di cura. I percorsi di vita diventano sempre più variegati e complessi: la taglia unica del Welfare pubblico non è più adatta a una popolazione molteplice e con le sue disfunzioni espande la spesa (in tendenza sempre meno alimentata da lavoratori giovani). Riorganizzare il Welfare, con dosi crescenti di mercato e di scelta individuale, è un’operazione complicata e lunga che nel breve periodo non darà effetti – anzi aumenterà forse il carico del debito.
Il tempo comperato dalla Bce non durerà per molto: a inizio anno l’ingente iniezione di liquidità effettuata con la Ltro ha creato effetti sui mercati, raffreddando i rendimenti, per poco più di tre mesi. La recessione si volgerà, come prevedono al Fmi, in una durevole stagnazione (forse un lustro) che ha nell’eurozona il suo epicentro. Con il debito come variabile cruciale, il gioco combinato dei fattori (meccanica perversa dell’euro, demografia ostile, stagnazione prolungata) tiene i paesi deboli del Mediterraneo sull’orlo del disastro. George Soros, Martin Wolf, Charles Dumas sono convinti che i danni derivanti da una difesa prolungata – e alla fine probabilmente vana – di una moneta sbagliata nell’impianto siano superiori ai costi di una rapida separazione consensuale. Per l’Italia il tema è decisivo e un errore strategico può condizionare i prossimi vent’anni: nel 1992 una difesa del cambio oltre i limiti del ragionevole ebbe esiti drammatici.