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 2012  ottobre 18 Giovedì calendario

LA DURA VITA DEL QUERELATO

Merlo, ho deciso di non leggerti più, da oggi ho delegato il compito al mio avvocato» mi disse un giorno Ciriaco De Mita. E lo racconto subito, alla fine di questo utilissimo manuale di giornalismo che è anche una veloce storia del martirio della libertà di stampa e un’affascinante esplorazione dei suoi limiti, per rimettere l’avvocato al suo giusto posto di protagonista-antagonista dell’informazione moderna. Quando, per fare un esempio, arrivai a Los Angeles per intervistare Monica Lewinsky, la trovai in compagnia di un bel giovane, alto e dinoccolato, che le rimase appiccicato come un’ombra. Fu lui ad aprire la porta. Anche se parlava pochissimo, controllava ogni cosa: era come un vetro che si insinuava tra Monica e il mondo, uno spessore trasparente fra di noi.
ACCANTO ai due c’era persino un mazzo di rose rosse. Gli chiesi: «Boyfriend?». Mi rispose: «No, avvocato». Il giovanotto aveva la fede al dito e Monica mi precisò: «Non mi innamorerò mai più di uomini sposati».
Quella silenziosa è una varietà antropologica dell’avvocatura meno rara di quanto si creda. Certamente è la meno raccontata, almeno in Italia, dove il principe del foro ha sempre i capelli scalmanati e le larghe maniche della toga gli si gonfiano di vento quando si lancia nelle arringhe alluvionali nutrite di citazioni classiche, condite di sarcasmi, in cui ora trema la commozione e ora fiammeggia l’ira.
Io che sono stato querelato da ministri, presidenti del Consiglio, senatori e deputati, dirigenti di partito e dirigenti RAI, po- tentati dello stato e del parastato, giornalisti di regime, avvocati e qualche volta anche da magistrati che sono, come vedremo, i più insidiosi; io che ho ascoltato contro di me ogni genere di improperi, pronunziati nelle aule di giustizia, ebbene io credo che forse il grande tema del rapporto tra libertà di stampa e giustizia si lascerà accostare più facilmente – a mia insaputa magari – se racconterò la storia di una condanna che non è mai avvenuta, la storia del mio rapporto con le querele, la storia del rapporto che noi gior- nalisti abbiamo con gli avvocati. Passo per essere uno dei giornalisti più querelati d’Italia, milito nella polemica scritta da quando, a 10 anni, sul giornale della scuola, mi lanciai contro… Garibaldi.
PER INSEGNARCI la dialettica, la storia e soprattutto l’amor d’Italia, il nostro maestro ci aveva commissionato su L’Aquilone, che stampavamo gratis nella tipografia diretta da mio padre, un processo a Garibaldi e a me aveva affidato il ruolo dell’accusa, a un mio compagno quello della difesa. Io, che ero troppo giovane per farcela da solo, diligente- mente attinsi, per come poteva un bambino di 10 anni, nel repertorio della facile e diffusa aneddotica del peggiore meridionalismo borbonico e ultracattolico contro il Risorgimento, che oggi è tornato ad alimentare una certa rabbia antitaliana, copiando da un libretto intitolato Il bandito dei due Mondi la seguente frase: «portava i capelli lunghi per non far vedere che gli avevano mozzato l’orecchio, che era la punizione inflitta, in Sudamerica, ai ladri di cavalli». Per completare la sua opera patriottica il maestro ci portò tutti a teatro a vedere quel Rinaldo in campo di Garinei e Giovannini, con Domenico Modugno nel ruolo del brigante etneo Dragonera che si lascia sedurre da Delia Scala, l’aristocratica Angelica, e per amor suo diventa garibaldino: «Ma se tu proponi / di piombare sui Borboni, / uno aggira l’avamposto, / l’altro attacca il fronte opposto, / uno sfodera il trombone, / l’altro balza sul cannone, / … pe’ i nemici non c’è scampo, / quando c’è Rinaldo in campo, / il Borbone se la squaglia, / abbiam vinto la battaglia». Davvero? «Ma se siamo in tre, / tre briganti e tre somari, / un, due e tre».
BRIGANTI garibaldini per amore! Piccolo e pelato, ci parve un colosso quel maestro quando emise la sua sentenza senza appello: «Garibaldi non fu mai un ladro, ma sempre un derubato, anche della reputazione». Il mio articolo si intitolava 1861-1961: abbiamo fatto l’Italia parlando male di Garibaldi. Tra le tante cose che devo a quel maestro ci sono anche la mia irriducibile, garibaldina avversione per la Lega e probabilmente quella maniera di scrivere senza riguardi, di nuovo garibaldina, che mi ha procurato tante querele ma altrettante assoluzioni. È difficile difendere la scrittura polemica in tribunale anche quando i giudici ti danno ragione nel merito. Spesso accettano la critica ma censurano quella che chiamano «la continenza», l’uso cioè delle metafore di cui sognava Picasso quando si augurava di fare una don- na – e pensava allora alla sua bella Adriana – che fosse del tutto un pipistrello pur essendo sempre una donna. Quando Adriana si vide disegnata come un pipistrello si riconobbe subito. E non lo querelò.