Daniele Bresciani, Vanity Fair 17/10/2012, 17 ottobre 2012
I NUMERI PRIMI NON SONO PIÙ SOLI
[Paolo Giordano]
Prima di conoscere Paolo Giordano, ho conosciuto i suoi numeri primi. Mancavano pochi giorni al Natale 2007 e incontrai le addette stampa della Mondadori, che mi snocciolarono le uscite dei primi mesi dell’anno che stava per cominciare. Tra queste, un romanzo di «un debuttante su cui puntiamo abbastanza». Mi misero in mano una bozza rilegata, dalla quale un ragazzo mi fissava da dietro un cespuglio e una di loro, salutando, pensò fosse opportuno darmi un consiglio.
«Vai a sciare con i tuoi figli a Natale?».
«Penso di sì».
«Allora non leggerlo».
Siccome non c’è come suggerire a qualcuno di non fare qualcosa per fargliela fare, lessi immediatamente La solitudine dei numeri primi, ne rimasi folgorato come in seguito altri milioni di persone in Italia e nel mondo, e dalla montagna scrissi immediatamente alla Mondadori perché Vanity Fair potesse tenere a battesimo per primo quel romanzo. Oggi quella prima intervista è un punto di orgoglio di questo giornale, anche se va detto senza alcuna presunzione: che fosse un bel libro era evidente, che potesse diventare quello che è diventato non lo poteva predire nessuno.
Poi, qualche settimana dopo quell’uscita, conobbi Paolo. Complice sempre l’ufficio stampa Mondadori, mi venne chiesto di presentarlo a un incontro con i lettori a Milano. Così incontrai un venticinquenne timido, che stava facendo un dottorato in Fisica e che sembrava un po’ spaurito malgrado non fosse ancora prevedibile l’ondata di successo che l’avrebbe poi travolto. In quella presentazione, ricordo che parlava pianissimo, con la sua erre un po’ trascinata e l’accento torinese – oggi molto meno evidente – a dargli l’aria da professorino. Rimase leggermente intimidito quando una signora l’accusò di incitare all’anoressia soltanto per il fatto di averne parlato, come se parlando di fame nel mondo o di terremoti si invocassero fame nel mondo e terremoti: ma ne uscì bene.
Da allora, Paolo e io – è brutto dirlo in modo così esplicito? – siamo diventati amici. Ci separano 20 anni, città, esperienze e senza dubbio la celebrità, ma con il tempo ci siamo conosciuti meglio, ci siamo scambiati confidenze e consigli, ci siamo visti magari riuscendo a non parlare né di libri né di giornali. Negli anni scorsi, solo raramente Paolo ha collaborato con Vanity Fair, anche perché, oltre a essere diventato una firma del Corriere della Sera con tanto di ritratto accanto al titolo dei suoi pezzi, teneva una rubrica sul settimanale Gioia. Però, quasi sempre, quando era a Milano, passava di qua, dalla redazione, per un caffè, un pranzo, un saluto.
E poi, la mattina del 30 giugno 2010, a bruciapelo, mi chiese: «Mi mandi una settimana in Afghanistan?».
Ora, Vanity Fair ha collaboratori importanti, soprattutto tra gli scrittori dell’ultima generazione. È capitato che qualcuno chiedesse di fare un reportage. Ricordo il Giappone, gli Stati Uniti, Cuba. Mi sarei aspettato qualsiasi cosa, da New York alle Bahamas, dalle Maldive all’Australia.
Ma l’Afghanistan.
Perché uno deve volere andare in Afghanistan?
«Non è facilissimo», risposi. «Ci vogliono richieste, permessi, vaccinazioni. Sicuro di voler partire?».
«Sicuro».
Cominciammo le pratiche con il ministero della Difesa e circa cinque mesi dopo, ai primi di dicembre, Paolo, assieme al fotografo Giuseppe Carotenuto, partì: destinazione un avamposto nella valle del Gulistan, sperduto nel nulla, dove erano impiegati i nostri Alpini. Realizzò per Vanity Fair uno splendido e doloroso reportage, raccontando le vite di questi ragazzi – ragazzi, sì, meglio che soldati –, le loro passioni, le loro speranze, le loro paure. Uscì appena prima di Natale e lo intitolammo Panettone all’inferno. E che fosse finito per qualche giorno all’inferno lo si capì appena dopo, quando il fuoco nemico uccise uno dei giovani che Giordano aveva incontrato, il caporale maggiore Matteo Miotto, 24 anni. Dovevano rientrare alla base il 28 dicembre, ma c’era stato un ritardo nelle operazioni e così, la mattina del 31, Matteo venne ferito a morte. Paolo raccontò anche questo sul numero successivo di Vanity Fair, dove venne ripubblicato lo sguardo dolente del caporale Miotto.
Non ne parlammo molto, ma ebbi da subito il sospetto che quel viaggio e quello che era successo potessero accendere una scintilla. Però non ne feci parola con lui: immaginavo quanto l’idea di un secondo romanzo potesse angosciarlo dopo i numeri (non primi, ma a sei zeri) del suo debutto. Ne ebbi quasi la certezza quando mi disse che sarebbe tornato di nuovo laggiù, questa volta per il Corriere. Poi, quest’estate, l’ufficialità: quasi 5 anni dopo, il nuovo libro di Paolo Giordano sarebbe stato ambientato in Afghanistan. Accolto, come sempre per chi ha avuto la fortuna di partire con il piede giusto, da scetticismo e da risatine del tipo: «Voglio proprio vedere adesso».
Invece.
Qualche settimana fa mi sono arrivate le bozze del Corpo umano – così si intitola il romanzo – e subito ho notato la differenza. Prima di tutto, le bozze erano rilegate in una anonima brossura rossa invece che con la pomposa copertina definitiva ed erano stampate in corpo minuscolo: segno dei tempi che impongono risparmi. E poi il titolo, quasi da manuale scientifico: te lo aspetti in libreria vicino alla raccolta dell’enciclopedia Sapere. Ho aspettato prima di cominciarlo e poi, piano piano, mi ci sono avvicinato: rispetto ai Numeri primi, che partiva con due capitoli folgoranti, queste sono pagine che avvolgono lentamente e poi, verso la metà, esplodono – letteralmente – per trascinarci verso una fine non scontata. Eccolo qui, mi sono detto, l’Afghanistan. Ci ho trovato ovviamente riferimenti a quello che Giordano aveva visto e raccontato per Vanity Fair. Ci ho trovato molto di quello che so di lui, della sua sensibilità, del suo modo di vedere la realtà.
Ma soprattutto, alla fine, ho trovato un libro bello e coraggioso, con protagonisti che non sono eroi né vogliono esserlo, ma mostrano tutte le debolezze dell’uomo che è costretto a vivere ciò che non vorrebbe vivere. I personaggi mostrano le loro fragilità, dalla voce principale, il tenente Egitto – medico militare, che non riesce a staccarsi dalle piccolezze della sua vita a casa – al maresciallo René, che quando è in Italia arrotonda come gigolò e che in Gulistan dovrà fare i conti con un dolore troppo grande da sopportare e con i sensi di colpa, fino al caporale Cederna, costretto quasi a recitare una parte per fingere che le ferite dell’anima non lo tocchino. Ci sono, nel Corpo umano, i giusti e i viscidi, le luci e le ombre, il coraggio e la vigliaccheria, quelli che non hanno bisogno di uno scenario di guerra per venire alla luce: li vediamo tutti i giorni anche noi, nelle nostre case, sui nostri posti di lavoro, soprattutto in momenti di crisi come questi (che purtroppo per certi versi assomigliano all’Afghanistan), quando il male e il bene diventano così ben visibili e per una volta chiari anche ai nostri occhi.
Però, raccontare tutto questo, no: questa è un’altra storia. Bisogna essere capaci di farlo. Come Paolo Giordano.