Andrea Scarpa, Vanity Fair 17/10/2012, 17 ottobre 2012
CHE MALE C’È SE NON HO AVUTO PAZIENZA?
[Marina Rei]
Marina Rei è una donna coraggiosa. Pubblicare un nuovo album e intitolarlo La conseguenza naturale dell’errore, in un Paese dove tanti sbagliano e quasi nessuno paga, è un bell’azzardo.
Scritto, prodotto e finanziato tutto da lei, il nono disco dell’artista romana è pieno di collaboratori illustri: Andrea Appino degli Zen Circus nell’iniziale L’errore, Pierpaolo Capovilla del Teatro degli Orrori in E mi parli di te, Paolo Benvegnù in Nei fiori infranti, il gruppo Bud Spencer Blues Explosion in Mani sporche, Cristina Donà nel Modo mio, Valerio Mastandrea e Riccardo Sinigallia (ex Tiromancino e fratello di Daniele Sinigallia, l’ex della Rei e padre di Nico, 11 anni, suo figlio) in Che male c’è, pezzo che compare anche nella versione arrangiata da Ennio Morricone con l’orchestra Roma Sinfonietta.
Alta, vestita di nero, stivaletti borchiati, Marina Rei entra all’improvviso in uno dei salottini della Universal di Roma, la casa discografica che le distribuisce il disco, e si tuffa sul divano come se fosse una piscina. Ha 43 anni, ed è in grande
forma. La risata si sente a distanza.
Qual è, secondo lei, la conseguenza naturale di un errore?
«Dubitare che l’errore ci sia mai stato. Io l’ho fatto spesso. Ma se adesso sono così, e sono abbastanza fiera di quello che sono diventata, è perché ho fatto un percorso. Mi sono posta domande, e ho cercato risposte. Non ho commesso solo errori».
Quello che non si perdona qual è?
«Non aver avuto più pazienza in amore. Mi fossi impegnata maggiormente, forse alcune storie sarebbero durate di più. Certi uomini dovrebbero capire che non bisogna temere le donne indipendenti e ricordarsi che tutte vogliamo continuare a credere nella favola del principe che ci salva e ci porta via. In fondo, c’è una principessa in ognuna di noi».
Adesso chi c’è al suo fianco: un principe o un ranocchio?
«Nessuno. Fino a poco tempo fa c’era qualcuno, ma la storia non è andata a buon fine».
È scappato?
«No, ma guardi che nessuno è mai scappato da me. Che cosa le hanno raccontato?».
Che, ogni tanto, picchia.
«Assurdo. Sono una donna forte, molto passionale, ma non manesca. Anzi: sono dolce e in cerca di protezione».
È dura fare la mamma single?
«È un altro lavoro. Quando Nico era piccolo, me lo portavo sempre dietro, adesso che va a scuola è impossibile. Ma non lo lascio mai da solo, al massimo un paio di giorni».
Con il padre come va?
«Ora bene. In passato qualche scintilla c’è stata: chi non le fa, quando una relazione finisce e c’è un bambino di mezzo?».
Dal 1996 in poi – con Al di là di questi anni, Dentro me, Primavera – ha avuto un grande successo. Poi, dal 2000, ha imboccato strade meno pop: soddisfatta?
«Sì. Per me cambiare è stato naturale, fare sempre le stesse cose è triste. Ho avuto fortuna, allora c’era ancora un mercato e più attenzione per la musica, oggi c’è il nulla».
Ha raccolto quello che si meritava?
«Che domanda... Io non rincorro niente. Non più. Non ho ansie, ho capito che non si può piacere a tutti, e che l’unica cosa che conta è essere libera. Se non fosse così, fare il mio lavoro non avrebbe senso».
Com’è andata con questo disco?
«Dopo aver lavorato con Benvegnù, ho pensato che avrei voluto fare altrettanto con altri artisti. Ho impiegato un anno e mezzo, e ho fatto tutto da sola. Credo che ogni artista, prima o poi, dovrebbe realizzare un disco del genere. Tutto ha un peso diverso, proprio perché è interamente tuo».
Nella canzone Qui è dentro parla di sovraffollamento delle carceri: c’è mai stata?
«Sì. Ho cantato in un carcere romano, Rebibbia, e ho visto le mamme con i bambini, cosa che mi ha molto impressionato. Ho chiesto al ministero di Grazia e Giustizia il permesso di portare avanti un progetto per spingere le detenute a raccontare le loro storie: avrei voluto cantarle, in un disco da fare con loro. Mi hanno risposto che era impossibile per questioni di sicurezza. Allora ho incontrato il giornalista Riccardo Arena di Radio Radicale, conduttore della trasmissione Radio Carcere, che mi ha fatto leggere alcune lettere dai contenuti incredibili per disagi, dignità calpestate e condizioni di vita. L’errore bisogna pagarlo, sia chiaro, ma con umanità».
Valerio Mastandrea, con Sinigallia, ha scritto il testo di Che male c’è sul caso di Federico Aldrovandi, il diciottenne che nel 2009 venne ucciso dalla polizia: lei che esperienza ha della sopraffazione?
«Tempo fa uno stalker per mesi mi ha scritto lettere deliranti, e c’è stato anche chi mi seguiva fino a casa».
Suo padre è stato per anni il batterista di Morricone: come l’ha convinto a lavorare per lei?
«Da piccola andavo a sentire papà, e lui mi faceva sempre i complimenti. Crescendo, ogni volta che lo incontravo mi facevo promettere che prima o poi avremmo lavorato insieme. Quando finalmente ho trovato il coraggio di proporgli la versione piano e voce di Che male c’è, mi ha detto subito sì. Gli è piaciuta la mia voce».
Si è già mossa per andare a Sanremo?
«No. Se avessi una canzone adatta, mi piacerebbe partecipare: manco dal 2005. In generale, vorrei ampliare i miei orizzonti artistici».
Non è che anche lei si mette a scrivere un libro?
«Ve lo risparmio. Se faccio una cosa, voglio farla bene. Ultimamente ho anche capito che non si può fare tutto da soli. Sono senza manager da un anno e mezzo: è dura, ma è difficile trovare quello giusto. Proprio come un uomo».