Rocco Moliterni, La Stampa 18/10/2012, 18 ottobre 2012
“IL VERO BARONE RAMPANTE ERO IO” LA VITA AVVENTUROSA DI SCARPITTA [È
stato uno dei grandi artisti del ’900, da ragazzo ispirò il romanzo di Calvino. Torino lo celebra con una mostra] –
“A Legion Ascot ho sentito una predestinazione metafisica. È stato fondamentale per la mia comprensione di ragazzo capire cosa è veramente un uomo. Un uomo è qualcuno che gareggia sempre»: così Salvatore Scarpitta ricordava in età matura la sua prima fascinazione per le automobili e i loro piloti, avvenuta quando era quindicenne e frequentava un circuito automobilistico vicino a Hollywood. Il fascino di quelle automobili degli Anni 30 lo segnerà per la vita e a un certo punto, artista ormai affermato, con esperienze d’avanguardia sia in Italia che negli Usa non solo tornerà a costruirle (prima solo sculture poi «oggetti» capaci di muoversi davvero), ma metterà in piedi anche un vera scuderia per correre, a 68 anni, nei circuiti polverosi della provincia americana. E a sponsorizzarlo con tanto di nome sulle carrozzerie multicolori sarà l’amico nonché gallerista di una vita Leo Castelli.
A questo straordinario «poeta dell’automobile», il più americano degli artisti italiani o il più italiano degli artisti americani (ma «io la questione della nazionalità dell’arte la rifiuto totalmente. L’arte deve avere radici nell’umanità, nelle vicissitudini dell’umanità» ripeteva), dedica da domani una retrospettiva - la prima in Italia - la Galleria d’Arte Moderna di Torino a cura di Danilo Eccher. Ed è giusto che sia la città dell’automobile a rendergli omaggio: qui ebbe fra i suoi primi galleristi italiani, Luciano Pistoi e Tucci Russo, e qui ricevette ormai anziano, nel 2005, due anni prima di morire, una laurea honoris causa.
«Ho scelto – spiega Danilo Eccher – di non ripercorrere l’intera e lunga carriera di Scarpitta, ma di focalizzare la mostra soprattutto su due periodi, che schematicamente possiamo definire delle slitte e delle automobili». Perché oltre che con le automobili, Scarpitta, suggestionato dalla cultura dei nativi d’America, si è anche cimentato con le slitte. Ne ha costruire di tutti i tipi, una è avvolta dal giubbotto che portava Jimi Hendrix a Woodstok, altre dalle stesse bende con cui realizzava i quadri negli Anni 50. «Scarpitta fa le mummie», diceva all’epoca il suo amico Turcato, ma non c’era nulla di mummificato o funebre nei suoi lavori, anzi le bende, le stesse che si usavano allora per neonati, in un’Italia che non conosceva i pannolini, erano un modo per esprimere «protezione». «La pittura ti dà botte - spiegava - qualsiasi mestiere te le dà. Qualche sistema per difenderti ci vuole. Per me la mia forma di dipingere, era un sistema per difendere il mio essere... E allora andavo avanti, e ho bendato i miei lavori, perché a un certo momento la vita stessa era come un ferito».
Scarpitta era nato a Hollywood nel 1919, il padre era un ingegnere palermitano che affiancava al lavoro di costruttore la passione (diventata poi professione) per la scultura. La madre era una attrice di origine russa. E molti degli episodi della vita del giovane Salvatore o Sal (come lo chiamavano in America e come scriverà in vernice bianca sui cofani delle sue automobili) sembrano tratti da un film. A undici anni ad esempio un giorno il padre gli chiede di aiutarlo a mettere in ordine lo studio. Lui si rifiuta e per sfuggire agli inevitabili schiaffi paterni si rifugia sui rami di un albero di pepe in giardino. Passa per caso un vicino, lo vede lassù e gli chiede cosa stia facendo. Lui risponde: «Sto cercando di battere il record di permanenza su un albero». Il vicino è un giornalista, per cui in breve tutti i giornali del posto hanno la notizia e le foto del ragazzino appollaiato sull’albero. Ci rimane per 600 ore, diventa un caso nazionale e una ricca ereditiera gli regala per l’impresa 1500 dollari: una cifra all’epoca spropositata con cui paga all’intera famiglia un viaggio in Italia. E pare che sia stata proprio la sua vicenda ad ispirare la figura del Barone Rampante del celebre romanzo di Calvino. Pur non essendo indigente, i viaggi da o per la terra del padre trova sempre qualcuno che glieli paghi. Nel dopoguerra è la Revlon, sponsor di una celebre trasmissione tv, tipo Carramba che sorpresa, a pagargli il viaggio dall’Italia in America per rivedere in diretta televisiva la madre che non vedeva da anni. In America non rivede solo la madre ma anche Leo Castelli che aveva conosciuto a Roma e ben presto entra nella sua «scuderia» accanto ad artisti come Rauschenberg, De Kooning o Jasper Johns. Ma non dimentica l’Italia dove aveva frequentato, prima della guerra, l’Accademia di Belle Arti a Palermo e il mondo artistico romano. Il mondo dei Turcato, dei Capogrossi dei Mafai e dei Guttuso. Con alcuni di loro farà negli Anni 50 le battaglie per l’informale e per un’arte nuova. Prima di spiccare il volo per l’America e di decidere nel 1964, di ricostruire nel suo studio al quarto piano di un Palazzo di Park Avenue, Rajo Jack la sua prima automobile dedicata a un grande pilota nero degli Anni 30, che non poteva correre nei circuiti importanti per il colore della pelle.