Paolo Mastrolilli, La Stampa 18/10/2012, 18 ottobre 2012
Intervista a Mario Vargas Llosa
“MURAKAMI & C. NON VI AMO SCRITTORI LIGHT” [Letteratura da intrattenimento, mafie esoteriche, distacco dalla vita: il j’accuse del Nobel] –
Decadenza. Mario Vargas Llosa non esita ad usare questa parola, per descrivere quello che sta accadendo nella società occidentale, stretta tra la crisi europea e l’incerta campagna presidenziale americana. Per molti versi è quanto ha previsto nella Civiltà dello spettacolo , il saggio che uscirà da Einaudi nel 2013 che mette in guardia dai pericoli della banalizzazione della nostra cultura, provocata dalla spasmodica ricerca del piacere personale superficiale. «I segni della decadenza - ci dice da Madrid - sono evidenti. Ora si tratta di vedere se avremo la forza di contrastarli restituendo senso alla cultura».
Il successo dei social media migliora o peggiora il problema?
«E’ una rivoluzione positiva, perché facilita la comunicazione e rende impossibile la censura. Però favorisce anche la diffusione ad un pubblico molto più grande di tutti i difetti della nostra cultura contemporanea, che sono la banalizzazione, la mancanza di rigore, la ricerca acritica del divertimento e l’intrattenimento. Inoltre i social media stanno portando alla scomparsa della privacy. Lo scandalo e il pettegolezzo dominano la comunicazione, generando anche l’usurpazione dell’identità delle persone».
La politica è vittima della banalizzazione?
«Basta guardare le elezioni negli Stati Uniti, dove la maggior parte della comunicazione avviene tramite gli spot televisivi. Quando la pubblicità determina le scelte di voto, è inevitabile l’impoverimento delle idee, perché l’immagine prevale su tutto».
Perché gli elettori accettano tutto questo?
«Perché risponde all’evoluzione generale della cultura nel nostro tempo. Non cerchiamo cose che ci inducano a pensare e riflettere, ma solo intrattenimento e distrazione. La politica dello spot di pochi secondi soddisfa questo bisogno, ma ha un effetto nefasto sulla democrazia, come si è già visto in molti Paesi sviluppati».
Sta pensando all’Italia?
«Non volevo citarvi, ma le dirò che il berlusconismo è stato il trionfo della politica spettacolo. Una deriva pericolosa per la cultura democratica, la civiltà e la libertà».
E’ un modello che sta facendo scuola?
«Certo, lo copiano ovunque. E’ devastante, perché l’immagine determina il successo politico più delle idee. La pubblicità non è razionale: fa leva sull’emozione, la passione, l’istinto, più che sulla ragione e la sensibilità. Ciò comporta l’emarginazione e la scomparsa degli uomini di pensiero dalla nostra società».
Gli intellettuali non hanno qualche colpa a proposito?
«Molte colpe, perché hanno contribuito a degradare se stessi e la loro funzione. Penso agli intellettuali comunisti, a quelli che hanno difeso lo stalinismo o la Rivoluzione culturale cinese: hanno contribuito alla perdita di prestigio della loro figura. L’intellettuale rappresenta la razionalità, il dialogo, la ragione, ed è stato rimpiazzato dalla manipolazione pubblicitaria. Questo è molto deleterio per la democrazia matura, che si basa sulla partecipazione di elettori razionali e dotati di spirito critico: ne va della nostra libertà».
La democratizzazione della cultura è responsabile del degrado?
«La diffusione della cultura è positiva, ma non al prezzo della banalizzazione, la semplificazione e la frivolezza. Così diventa una democratizzazione al ribasso, che degrada la cultura stessa. Le università, i centri di studio, devono essere aperti a tutti per dare ad ognuno la possibilità di crescere, ma non devono per questo abbassare la qualità del sapere che offrono. Così la cultura diventa una caricatura».
Lei ha criticato anche scrittori come Milan Kundera, Paul Auster, Haruki Murakami, Julian Barnes: qual è il loro torto?
«Hanno ceduto alla letteratura light, di intrattenimento. Io non credo che gli scrittori debbano rinchiudersi in una mafia esoterica, ma la funzione della letteratura è sempre stata quella di affrontare i problemi profondi e seri della vita. Gli autori devono fare lo sforzo di comunicare, ma hanno anche la responsabilità di coniugarlo col rigore, l’originalità e l’impegno creativo per costruire nuove forme di arte».
La secolarizzazione ha contribuito ad indebolire la cultura?
«E’ necessariadalpuntodivistapolitico, perché lo Stato non può essere prigioniero della religione, però anche una società laica ha bisogno di una intensa vita spirituale. Noi l’abbiamo accantonata, senza sostituirla con una cultura laica di livello adeguato. Così abbiamo perso i valori, l’etica che veniva dalla religiosità. Il risultato è la corruzione, che ormai permea tutta la nostra vita pubblica».
Il giornalismo è complice di questo degrado?
«La sua crisi è un effetto, più che una causa. Il mercato vuole intrattenimento, e quindi anche la stampa più seria si piega. Chi non lo fa, non sopravvive sul piano economico. Il fatto che il pubblico voglia divertirsi col giornalismo, invece di informarsi, è uno dei problemi più gravi della civiltà dello spettacolo».
Ma la crisi in corso in Europa non richiederebbe proprio un’informazione più seria e approfondita?
«E’ una crisi di crescita, non di progetto. L’idea europea è la più importante del mondo, per combattere i nazionalismi. Lo sforzo di integrare culture, lingue e tradizioni diverse ha prodotto sicuramente più benefici che problemi, garantendo sessanta anni di pace ad un continente con una storia fatta di massacri. La banalizzazione della cultura complica la ricerca di una soluzione per la crisi, che non è solo economica, ma è la cultura che deve dare le risposte attraverso le idee. Altrimenti corriamo il rischio terribile della decadenza».
Come la possiamo evitare?
«Prima di tutto, dobbiamo prendere coscienza del problema creato dalla civiltà dello spettacolo. Poi affrontarlo con l’istruzione, nel senso più ampio del termine. Scuola, università, famiglia, istituzioni politiche, media, intellettuali devono mobilitarsi per una riforma radicale dell’educazione, affinché la cultura ritrovi la forza per risolvere i problemi dell’uomo».