Alberto Arbasino, la Repubblica 18/10/2012, 18 ottobre 2012
DA CAMERETTA MUSICA
[Benvenuti al festival dei suoni lamentosi e liquidi] –
Dopo una total immersion di vari giorni nel 56° Festival Internazionale di Musica Contemporanea, intitolato «+Extreme-», alla Biennale veneziana, ecco qui. Si pongono questioni. Se invece di esecuzioni in luoghi prestigiosissimi – Sale delle Colonne o degli Arazzi, Palazzo Pisani, le Tese all’Arsenale – con un pubblico tipicamente di élite e festival, i medesimi pezzi venissero offerti agli abbonati (dunque abbastanza “iniziati”) di una stagione concertistica attuale? Al Conservatorio milanese o nell’Auditorium romano, come si “recepirebbero” le monotonie così estremamente inespressive dei minimalismi da camera già vecchiotti?
Qui, giacché anziani, si ricordano i furori di Fedele d’Amico, a certe remote Biennali nelle epoche di Contestazione, quando in preda al Decentramento tutti gli ospiti del Festival venivano faticosamente spostati dai loro alberghi in centro al teatro Toniolo di Mestre. In occasione dell’opera-ragtime Treemonisha, ritmata sui cari tempi di «Guarda guarda guarda il bel pinguino innamorato – col colletto duro e con il petto inamidato ». Ma si era pochissimi, in sala, i mestrini non erano venuti, e così ci si era decentrati per niente. Oltre tutto, nell’attuale centenario di John Cage, si legge che ovunque viene eseguito con coreografie inventive e quindi ovviamente protagoniste, come per esempio a Roma. E vedendo sui programmi che un pezzo può avvalersi di parecchi clavicembali e molti nastri magnetici, mentre sulla scena gli strumenti sono pochissimi, naturalmente lo spettatore si domanda chi ha fissato la presunta aleatorietà pre-determinando il programma e la scelta delle sirene d’ambulanze e sfrigolii e cinguettii e la ripetitività degli sbattimenti di cassetti e sportelli. Nonché l’«ita missa est», e la durata o la ripetitività degli applausi. Sempre davanti a un pubblico di specialisti immobili. Altro che quei bei tempi di Einstein on the Beach, quando si poteva uscire, prendere un caffè e rientrare, tanto lo spettacolo di Bob Wilson e Philip Glass pareva sempre allo stesso punto.
Davanti ai quartetti numerosi e seriosi, senza coreografie né happening, l’impalpabile (ma non certo imperdibile) monotonia del suono lunghissimamente protratto, malgrado mille increspature galeotte ma noiosette, sovente produce un effetto di musica di fondo per ascensori. Con scricchiolii e stridori lamentosi, applausi striminziti per un clavicembalo elettronico digitale, ma forse a tratti scolastico. Dunque, tentazioni aleatorie di applaudire e uscire a guardare i vaporetti quando la faccenda appare un po’ troppo causal e “ad lib”. Fingere un happening? E se al bar, al pianterreno, la colonna sonora è altrettanto alternativa e ripetitiva, sarebbe naturale chiedersi come sarà possibile trasmettere per radio o registrare su cd e dvd soffi “estremi” così fievoli e poco udibili benché le sale siano molto più piccole di un teatro tradizionale, o anche della sala più minuscola all’Auditorium romano. Ma con quale musica si faceva l’amore nei locali o a casa, decenni fa?
Austero come Buster Keaton, ancora per John Cage, un percussionista in camice bianco da cuochino agita e sbatte severamente barattoli e padellini batteristici come preparando un “cereghin” o una “russumata” a una televisione mattutina. E si rimpiange che a quei tempi non si usassero ancora i telefonini: indubbiamente il Maestro li avrebbe usati subito, tra i vari comfort modernissimi, le accordature di strumenti, i lamenti e sogghigni, i princisbecchi e le protrazioni casuali. Non appare invece utilizzato l’usignolo dell’Eiar: chissà con quale strumento si realizzava «Della radio l’usignol – stamattina ha preso il vol». Suoni assai “liquidi”, invece, in quel “non-luogo” che appare adesso il salone del «B. Marcello». Denotano una acquaticità come in acquari con pesciolini, mentre dal soffitto malmesso si scrostano le effigi di Bellini o Chopin, e vanno squamandosi sui ciuffettini e gli orecchini e i codini e le sopracciglia ritoccate intente a Paesaggi Immaginari ormai fermi e fissi nonostante le nuove tecnologie che consentono e autorizzano “live electronics” e regìe del suono con una grossa tiorba, cioè un chitarrone senza metafore circa liquidità, liquidazioni, liquefazioni, ecc. Alle Tese, all’Arsenale, altre sorprese col “bayan”, praticamente una efficace fisarmonica forse parente del “bayòn” di certe canzoni sudamericane della nonna. Ivi Germano Scurti, somigliante a un Vendola giovane, ha incominciato a contorcersi fin dall’inizio. E questa estasi espressiva con bocca spalancata l’ha proseguita fino al termine. Una buona alternativa a Piazza San Marco è apparso piuttosto un Langsamer Satz di Anton Webern: evidentemente derivato dalle sue esperienze di café chantant, come Schönberg.
Qualche musica per ascensori poteva generare cupaggini a causa del forte volume e del timbro scuro. Ma peggio fu il quartetto di Morton Feldman, con pianoforte e la durata di un’ora e un quarto, e la pretesa di porsi o esistere come evento unico e assoluto, mediante la ripetizione e variazione minimale di un limitato numero di pregnanti figure. «Raffinate strategie compositive? Affascinanti sospensioni della memoria»? Ma mi faccia il piacere? Per un’ora e un quarto? «Se piove e vaghi per la città – senza nessun pensier – domani il sole ti rasciugherà », si cantava nelle riviste di Wanda Osiris, nelle analoghe circostanze di sgocciolìo.
Il Leone d’oro a Pierre Boulez gli arriva un po’ tardi, a 87 anni piuttosto evidenti. Quanti decenni sono trascorsi da un suo Debussy metallico, «come d’alluminio », dunque opposto ai decadentismi di De Sabata, a un remotissimo Maggio Fiorentino... Ora, con questo sur Incises, per tre pianoforti, tre arpe, tre percussioni, e parecchia soddisfazione interiore, ha prodotto un altro capolavoro per cui valse la pena di recarsi qui fra le scomodità stagionali. Così come l’anno passato, al Conservatorio milanese, per il suo Pli selon pli. Scriveva allora: «Io dò per acquisito, tramite la lettura, il senso diretto della poesia di Mallarmé; ritengo che i dati che essa comunica alla musica siano assimilati e posso quindi giocare su gradazioni variabili di comprensione immediata».
Ma davvero può credere che i testi di Mallarmé siano alla portata di studenti e intellettuali italiani che hanno come seconda lingua l’inglese-americano, e lo conoscono anche male? Ci sono differenze fra L’Azurdel poeta francese e i nostri contesti con una squadra Azzurra o la canzone Azzurro ove Celentano si dispiace perché «Neanche un prete per chiacchierar». «Eh, certo, anche un Rimbaud in tedesco diventa altra cosa». Ma fra i giovani francesi, quanti oggidì possiedono una tale familiarità con Mallarmé e con Boulez per potere apprezzare il rapporto fra «Une dentelle s’abolit» e la sua musica?
Ma non bisogna scherzare, qui. Anche l’amico Roland Barthes si rabbuiava quando «la carne è triste e l’intestino è pigro, signore mie, leggete qualche libro ». O se si proponeva che il Cygne di Mallarmé fosse piuttosto un Signe, nel trionfo della Semiotica.