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 2012  ottobre 18 Giovedì calendario

“QUEL BAMBINO È DA RESETTARE”

[Il curioso gergo delle ordinanze e la discutibile razionalità delle decisioni] –
Lunedì si è solennemente inaugurata, alla presenza del Presidente Napolitano, la Scuola superiore della magistratura, nel comune fiorentino di Scandicci, nell’ex ospedale psichiatrico di Castelpulci – bellissimo dettaglio, ci sopravvisse quattordici anni Dino Campana, e ci morì.
La preparazione e la selezione dei magistrati si svolge finora attraverso un concorso “teorico” e la pratica a fianco di magistrati “esperti”. Come si preparino e si scelgano i magistrati è per un paese questione cruciale, dunque era interessante ascoltare, grazie a Radio radicale, le cose dette, oltre che dal capo dello Stato, dal ministro Severino, da Valerio Onida, che dirigerà la scuola, dal vicepresidente del Csm Vietti, su durata dei processi, condizione delle carceri, riserbo e pubblicità, moltiplicazione micidiale dei reati e omissione di reati micidiali e così via. C’era ora una ragione peculiare di attenzione, suscitata dalla prossimità con la vicissitudine del bambino di Cittadella. Non mi riferisco alla delicatezza di questioni come l’affidamento di minori nel caso di genitori in rotta, su cui si è soffermata la discussione nei giorni scorsi. Penso invece alla lingua e al gergo degli atti giudiziari, così come il caso padovano li ha fatti emergere. Che lingua parlano i magistrati italiani, e che linguaggio? Traggo qualche esempio da quanto, dell’ordinanza della Corte d’appello dei minori di Venezia, è stato pubblicato. La pubblicazione è parziale, e oltretutto non permette di distinguere farina e crusca del sacco dei giudici da quelle del o dei periti, le cui frasi passano spesso tali e quali – per convinzione o per pigrizia – nei testi delle corti. Di chi sarà infatti la frase che evoca «un avvio di un percorso personale di sostegno di genitorialità »? Cominciamo dall’espressione che più ha sgomentato lettrici e lettori: la Corte dichiara
«la necessità di un allontanamento del minore dalla madre, fino ad aiutarlo a crescere, imparare, e
non certo da ultimo, a resettare e riassestare
i propri rapporti affettivi in ambiente consono al suo stile di vita». Che un bambino debba “resettare” i propri affetti è una formulazione raccapricciante. Si è osservato (l’ha fatto su questo giornale Jenner Meletti) che il bambino vi è trattato come un computer: osservazione che può suonare indulgente, dato che non manca chi ami più il proprio computer che i bambini altrui. Ma resettare, nell’accezione che suppongo dei giudici (o dei loro periti acriticamente accolti), vuol dire azzerare, ricominciare daccapo: e, nonché a un bambino veneto di dieci anni forte in matematica, nemmeno al ragazzo selvaggio dell’Aveyron si può prescrivere di ripartire da zero, di fare tabula rasa dei propri affetti. Alla scivolata lessicale si aggiunge quella della vanità: perché chi ha scritto è stato sedotto dall’effettaccio dell’allitterazione dei due verbi: resettare e riassestare, l’uno adatto a un computer, l’altro a un terreno franoso o a un bilancio pubblico – agli affetti di un bambino no. Il gusto per l’assonanza superflua torna dove l’ordinanza chiama “irrisorio e risibile” il tempo trascorso dal bambino col padre, in una frase che finisce misteriosamente, così: «il bambino riprese /…/ a frequentare il padre, ma lo fece per un tempo irrisorio e risibile, finché non fu scongiurato lo scampato pericolo». La madre, sostengono i giudici, «non ha saputo tutelarlo fino ad assumere atteggiamenti di evidente maleducazione… »: dove il soggetto di “assumere” in italiano è la madre. Il bambino definisce il padre «con termine di profondo disprezzo ed evitamento»: che, se non è colpa della trascrizione (la traggo dal Mattino di Padova), deve voler dire nella neolingua dell’ordinanza che il bambino evita il padre. E aggiunge che il bambino «non percepisce alcun vuoto della sua mancanza»: formulazione così impervia da poter essere voltata senza danni: «non percepisce alcuna mancanza del suo vuoto». Dell’ambiente “consono” – una comunità, come sappiamo – l’ordinanza dice che sarà «accogliente e specificatamente preparato a trattare le sue involontarie problematiche». La comunità, la casa-famiglia, è definita come «luogo neutro per decantare» e «camera di decompressione».
Lingua e gergo dei giudici non dicono molto delle ragioni e dei torti di padre e madre: dicono parecchio dei giudici, ed eventualmente del o dei periti. Quanto alla «sindrome di alienazione genitoriale», messa drasticamente in discussione da alcuni esperti, e riscontrata più volte dallo stesso perito, conferma che per un martello tutto è chiodo. Anche quando la testa su cui batte è di un ragazzino. Una rassegna, anche la più svelta, di relazioni redatte da psicologi, pedagoghi, assistenti sociali e specialisti di ogni specialismo mostrerebbe lo straripamento delle molestie alla lingua e del ricorso a gerghi. Esperimenti in corpore vivi.
Immagino che una Scuola superiore della magistratura non sia il posto adatto per occuparsene. Però quale?