Etgar Keret, la Repubblica 18/10/2012, 18 ottobre 2012
PERCHÉ HO DECISO DI VIVERE IN UNA CASA DI 122 CENTIMETRI
Tra qualche ora salirò su un aereo che mi porterà a Varsavia e, sinceramente, sono davvero molto emozionato. Non per il volo, e di certo non per Varsavia – una città in cui sono stato almeno una dozzina di volte. Sono emozionato perché questa volta non ci vado da turista o da scrittore per promuovere un nuovo libro. Questa volta vado a casa mia. È vero, è una casa non molto grande, anzi, è persino molto piccola, stretta. Probabilmente è la casa più stretta del mondo. Comunque anche una casa di 122 centimetri di larghezza è pur sempre una casa. E io sono molto emozionato perché la mia famiglia non ha una casa a Varsavia da più di settant’anni.
Mia madre è nata a Varsavia nel 1934. Quando è iniziata la guerra lei e la sua famiglia sono stati rinchiusi nel ghetto e, pur essendo molto piccola, ha trovato il modo di mantenere i genitori e il fratellino. Attraverso pertugi in cui gli adulti non avevano la minima possibilità di passare i bambini riuscivano a sgattaiolare fuori dal ghetto e a tornare con un po’ di cibo. Durante la guerra mia madre ha perso la sua e il fratello più piccolo. In seguito anche suo padre è morto e lei è rimasta sola.
Una volta, tanti anni fa, mi ha raccontato che dopo la morte di sua madre aveva detto a suo padre
di non voler più lottare, che non le importava di morire. Lui le aveva risposto che le era proibito, doveva resistere. «I nazisti », aveva detto, «vogliono cancellare il nome della nostra famiglia dalla faccia della terra e tu sei l’unica che potrà mantenerlo vivo. Il tuo compito è quello di sopravvivere alla guerra e di preoccuparti che il nostro nome rimanga e che tutti coloro che passeranno per le strade di Varsavia lo conoscano ».
Non molto tempo dopo la morte di mio nonno, subito dopo la guerra, mia madre fu mandata in un orfanotrofio: prima in Polonia, poi in Francia e infine in Israele. Mantenendosi viva ha esaudito la richiesta di suo padre: non ha permesso alla sua famiglia e al suo nome di morire.
Quando i miei libri hanno cominciato a essere tradotti all’estero i due Paesi in cui ho ottenuto più successo come scrittore sono stati, sorprendentemente e inaspettatamente, la Polonia e la Germania. A questi due, in perfetta armonia con la
biografia di mia madre, si è unita più tardi anche la Francia. Mia madre non è mai più tornata
in Polonia ma il mio successo nel suo Paese natale è molto importante per lei, più ancora del
mio successo in Israele. Ricordo che, dopo avere letto la traduzione della mia prima raccolta
di racconti in polacco, mi ha detto: «Tu non sei uno scrittore israeliano. Sei uno scrittore po-
lacco in esilio». E se questo è vero, allora fra qualche ora tornerò a casa. Una casa stretta, in cui resterò solo pochi giorni, ma sulla cui porta ci sarà una targa enorme: “Famiglia Keret”, e quando arriverò chiamerò mia madre e le dirò che sono a casa.
Tre anni fa sono stato contattato da un architetto polacco, Jakub Szczesny, che ha cercato di spiegarmi al telefono che voleva costruirmi una casa a Varsavia, la casa più stretta del mondo. Ho pensato che si trattasse di uno scherzo. Quell’idea bislacca e il pesante accento polacco con il quale l’uomo parlava inglese rendevano la conversazione molto comica ed ero sicuro che dietro questa burla ci fosse uno dei miei amici. Qualche settimana dopo Jakub è venuto in Israele e quando l’ho incontrato di persona ho capito che parlava assolutamente sul serio. La sua idea era quella di costruire per me una casa proporzionata ai miei racconti: minimalista, la più piccola possibile. Jakub aveva notato uno spazio inutilizzato tra due case al 22 di Chlodna street e aveva deciso che doveva costruirci qualcosa. Quando ci siamo incontrati mi ha mostrato il progetto:
una casa stretta di tre piani.
Dopo l’incontro con lui ho preso l’immagine simulata al computer della casa e l’ha mostrata a mia madre. Con mia grande sorpresa lei ha riconosciuto subito la via: quella casa stretta sarebbe sorta per puro caso nel punto in cui c’era un ponte che collegava il piccolo ghetto al grande ghetto. Quando mia madre contrabbandava cibo per i suoi genitori era lì che doveva superare un posto di blocco di soldati nazisti. Se fosse stata presa con una pagnotta di pane sarebbe stata uccisa sul posto, lo sapeva.
Oggi, 72 anni dopo, in quel punto abbiamo una casa. Una casa spregiudicata e sottile. In fotografia sembra quasi che la storia non le abbia lasciato spazio ma in quello spazio si è infilata a forza, come a dire: una volta in questa città viveva una famiglia che non c’è più. Chi passa qui vicino, però, dovrà fermarsi un momento, guardare la mia struttura stretta e provocatoria, la targa, e ricordarne il nome.