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 2012  ottobre 18 Giovedì calendario

MASSIMO E WALTER, CADUTI INSIEME

In un paese civile e maturo la caduta di un capo non provoca mai sconquassi. E invece la caduta di D’Alema è la conseguenza di una rara ferocia: si ritira solo se vincerà Bersani, resterà invece in gara se vincerà Renzi «e sarà battaglia ». E che battaglia, ha commentato Lilli Gruber. Non cade dunque senza far rumore, Massimo D’Alema, si arrende alla rottamazione per rottamare il rottamatore: «Lo scranno lo mollo, per fare la mia battaglia politica. Mi mobilito». E l’Italia, che è abituata a ogni genere di rovine, dal 25 luglio alla fine della Dc, dalla tragedia craxiana al bunga bunga di Berlusconi, ieri sera gli ha visto dare l’addio ai monti come un inaspettato, struggente Renzo Tramaglino e ha scoperto che è persino possibile accorarsi per il freddo D’Alema, per i suoi baffi di ferro, e simpatizzare con lui almeno nel giorno della sua caduta.
E cade dunque Bibò dopo che è caduto Bibì, cade Massimo dopo che è caduto Walter: «La decisione di Veltroni qualche problema me l’ha creato perché è scattata subito la caccia all’uomo». E poco importa se uno cade nel silenzio e l’altro nel fracasso, l’uno elegante e l’altro, da sempre incattivito e sprezzante, finalmente attento e composto perché «abbiamo caratteri diversi — ha detto D’Alema — ma l’amarezza è la stessa, l’amarezza per la violenza del nostro Paese, per questa stagione di inciviltà». Protagonisti inseparabili sino all’ultima striscia, quella d’addio, cadono insieme Massimo e Walter, i due
gemelli Bibì e Bibò appunto, i due discoli giulivi usciti dalla matita dell’americano Rudolph Dirks e resi famosi dal
Corriere dei Piccoli
(la prima volta apparvero nel 1912). Anche Bibì e Bibò «i due nostri malviventi / di nascosto sempre intenti / ad un loro tiro pazzo...» si distinguevano tra loro soltanto per dettagli fisici, l’altezza, i capelli e, potremmo aggiungere noi, i baffi e gli occhiali, particolari estetici, ondulazioni sulla superficie increspata della politica, l’attempato adolescente che voleva fare l’americano, per sempre grazioso e incerto, e il giovane nato vecchio con il terribile ghigno che solo ieri sera si è finalmente addolcito, kennedismo e togliattismo, l’occhio freddo contro il sorriso caldo, la barca a vela contro il calcio, la fondazione politologica e la letteratura, e forse Bibò invidiava l’aria umana troppo umana di Bibì che ammirava invece l’espressione impermeabile dell’altro. Una volta Veltroni mi disse: «Pensa se io mi facessi crescere i baffi, e se Massimo se li tagliasse… ». Da sempre l’uno è la verità dell’altro. Può esistere Bibì senza Bibò, può esistere Bibò senza Bibì?
Sono stati due capi nel Paese dei maggiordomi. E ieri sera nella luce gloriosa di un notte italiana in un raro momento di bellissima televisione-verità D’Alema ha dimostrato che si può vincere perdendo. E lo ha fatto anche per lui, per Bibì che «tra Bersani e Renzi non ha voluto schierarsi e io lo rispetto, ma io sono fatto in un altro
modo e non ci sto».
D’Alema ha dunque preso su di sé tutta la storia del centrosinistra e ha preso su di sé pure Veltroni rivendicando i governi Prodi, l’entrata nell’euro, le stagioni di Ciampi… sino al rigore di Monti che «abbiamo voluto noi». Ma ha pure ammesso le divisioni, le risse, l’incapacità di restare uniti, insomma la sconfitta. Ed è riuscito,
con l’intensità dello sguardo a tratti addirittura commosso, a comunicare, trasmettere il dramma suo personale e quello del suo partito e della lunga storia dalla quale proviene.
Quale che sia l’esito della guerra che solo ieri sera è davvero cominciata nel Pd e nella sinistra italiana, è comunque finito lo “stile D’Alema”, lo stile della volpe e del lione, di tutte le bestie cioè del Machiavelli, della politica disseminata di trappole e popolata da lupi. Ed è appunto uno stile che ha generato rancori invincibili.
D’Alema aveva detto a
Repubblica
«non sono un cane morto». Sapeva che era la preda di «una caccia all’uomo», appunto. I vecchi gregari e i nuovi talenti del suo stesso partito, i suoi compagni, si stavano comportando con lui come con l’albatros di Baudelaire. Quando volava alto gli si attaccavano con i propri sogni, e alle sue ali appendevano le loro ambizioni, la voglia di approdi favolosi. Ma ora che stava sulla tolda della nave, l’acchiappavano, gli spezzavano una gamba e si davano all’esercizio del tormento: «Come è fiacco e sinistro e comico e brutto, lui poco fa
così bello. Uno gli mette la pipa sotto il becco, un altro, zoppicando, mima lo storpio che volava». Un capo come D’Alema, un uomo nato per fare il segretario generale, non poteva starci. Certamente gliele avrebbero fatte pagare tutte, gli avrebbero chiesto il conto anche delle colpe che non ha e dei debiti che non ha mai contratto. Perciò ha aperto un’astiosa, implacabile ma creativa stagione di vera lotta politica, la sola che può portare tutta la sinistra e tutto il paese fuori dalla palude degli uomini che in eterno succedono a se stessi, la sola che può affossare una storia salvandola: «Grillo vede Renzi come un “competitor”, uno che vende la stessa merce. Io credo che il Pd debba vendere un’altra merce».
E almeno questa volta i protagonisti non saranno i maggiordomi. La divinità infatti trascina con sé tutto il partito. Lo sconfitto D’Alema ha preso il ruolo romantico straordinario e inaspettato, inedito e inaudito dello Zarathustra di Gallipoli: «Io amo coloro che non sanno vivere se non tramontando»