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 2012  ottobre 17 Mercoledì calendario

STORIA DEL GARANTISMO

[Gli uomini che hanno previsto il fanatismo dei manettari] –
Batman fa strani effetti, e diversi. Uno a Denver nel XXI secolo si tinge i capelli di rosso, si fa un arsenale, e all’uscita del cinema sistema la psiche facendo una strage a colpi di automatica.
Un altro come Vitiello, alla fine del secolo scorso, analizza il supereroe con armi infantili che poi aggiornerà da cinéphile e semiologo, e passa al garantismo. Il perché lo racconta nella premessa a questo libro: il nemico cattivo incastra Batman in un processo abusivo per false arrest, e non si mette in galera la gente senza motivi seri. Ma la denuncia è farlocca, e un abuso su un abuso è il massimo moltiplicatore di una passione garantista in incubazione. Poi Batman guida la Batmobile in stato di ubriachezza, ed è giusto che paghi anche lui, magistrato d’assalto della fantasia universale.
In fondo è anche questa una strage, ma delle idiozie, che non sono mai innocenti. Sono d’accordo con Vitiello almeno quanto penso di essere in disaccordo con lui, e con alcuni suoi compagni di strada, su due passaggi che tra poco dirò. I ritratti intanto mi conquistano, e conquisteranno i lettori, perché non c’è niente di più autentico e prezioso delle idee quando i loro portatori sono quei tipi speciali, pieni di fascino, che la storia si incarica ogni volta di sconfiggere, facendoli salvi nel suo sistematico disastro. Spe salvi, e salvi anche nella perdita della speranza, nel risentimento laico e non litigioso, ma combattivo, con un paese refrattario al giuridicamente normale perché strettamente avvinghiato al politicamente corretto. Ai vecchi capita la libertà di spirito, la libertà in fondo è vecchia, e questo le dona.
Mauro Mellini il racconto di Vitiello ce lo ricostruisce turbolento e pazzo di sapienza com’è, isolato e battuto nonostante la vittoria sulla canea che fece brandelli di Enzo Tortora, e fiero arcinemico della giustizia basilicale, il rito marmoreo amministrato senza il tormento della coscienza, la coscienza personale che è tutto e più di ogni altra cosa per un laico anticlericale come lui. La spiritualità ottocentesca lo porta a disprezzare chi non crede «nemmanco nel pancotto», è un uomo di fede come tutti i mangiapreti, Belli è il suo breviario o messale romano («E cantò messa monzignor Camuffa / uno de quelli che condanna a morte»), Sciascia il suo livre de chevet.

Verso il fanatismo

Domenico Marafioti era la prefigurazione sicura e composta di quanto sarebbe avvenuto, una variante profetica della letteratura civile, e capiva con anticipo fatale dove sarebbe andata a finire la decadenza della giurisdizione, l’annichilimento del diritto nel fanatismo, negli stridori: «La magistratura verrà a trovarsi irretita in una trama che non le è più congeniale, quella degli apparati di dominio, di ricerca del consenso, di formazione del potere e di scelta preliminare dei fondamenti decisionali, secondo archetipi filosofico-giuridici tipici della funzione politica e non di quella giurisdizionale».
Nei suoi racconti primeggiano gli uomini d’onore, nei resoconti campeggia il fanatismo gesuitico-inquisitoriale di certa «antimafia integralista e sospettosa» che ha perso il suo onore perseguitando il poliziotto Contrada e il magistrato Carnevale. Carnevale fu messo sotto monitoraggio di Stato, un grande processo contro le cosche fu aggiustato da Martelli Guardasigilli e Violante capo dell’anti - mafia politica, ma non bastava, occorreva lo scalpo del correttore e cassatore di sentenze, ché certi mestieri del diritto vanno proscritti per l’eternità e, per il bene della causa, con mezzi spicci e sleali (il contrario della giurisprudenza «sbrigativa e leale» della cultura anglosassone richiamata da Calamandrei).
Da giovane, Carnevale sentì un collega domandarsi in sede giudicante: «Quanto ci damu?», e inorridì. Qualcuno deve essersi fatto la stessa domanda quando fu messo lui sotto accusa per risibili intrallazzi di camorra e di mafia, con il risultato di una distruzione del diritto, poi compensata (si fa per dire) da assoluzioni e norme che ne fanno, del presidente cassazionista Carnevale, il Matusalemme in servizio della giustizia civile, ope legis, dopo quindici anni di tormenti affrontati con sadica dignità (la dignità è sadica quando si applica agli indecenti).
Ma di Carnevale Vitiello, nella turrita e solitaria malinconia del suo stile, ci lascia la vera immagine che conta: «La sua conoscenza perfino dell’ultimo iota delle carte processuali è, in effetti, leggendaria. Mellini descrisse Carnevale in udienza come un direttore d’orchestra, che domina gli atti alla stregua di una partitura musicale, e con pochi gesti misurati della mano dà a intendere di aver compreso le argomentazioni delle parti». Al giudice che domanda: «Cu è u fetiente?», l’ammazza - sentenze risponde con Voltaire: «Sbattere un uomo in carcere, lasciarvelo solo in preda alla paura e alla disperazione, interrogarlo solamente quando la sua memoria è smarrita per l’agitazione, non è forse come attirare un viaggiatore in una caverna di ladri e assassinarlo?» Di Federico dice che Falcone non avrebbe mai voluto la persecuzione di Carnevale, ma odiava chi metteva nei pasticci la sua strategia anticupola, umano troppo umano.
Di Federico è il giurista dell’altro mondo. Guarda a tutto quel che vede nel disastro italiano sotto l’aspetto dell’idolo maggiore, l’obbligatorietà dell’azione penale, il grande alibi che è anche il colpevole normativo e costituzionale del losco disordine della giustizia italiana.
Il processo che diventa la pena, il non-si-poteva-fare-altrimenti come il non poteva- non sapere, la sentenziosa rassegnazione al peggio di un sistema ammalato studiato con acribia dal comparatista che condivideva le sue idee riformiste proprio con Falcone, la direzione antimafia come primo varco aperto verso una politica penale responsabile e non idolatrica, e la separazione delle carriere.
Un concentrato di idee che fioccano come articoli di leggi mai approvate, un digesto. Riletti questi ritratti che danno un fondamento di ragione a tempi che ne sono privi senza ritegno, ecco il primo dissenso. È proprio Di Federico a spiegare in- direttamente a Vitiello e a noi lettori perché la destra berlusconiana, che aveva per lo meno un vantaggio di posizione sulla sinistra fanatizzata dal ron ron giustizialista, ha tradito le promesse di una riforma della giustizia.

Leggi ad personam

In un Paese in cui la giustizia si sceglie gli imputati ad personam, ecco le leggi ad personam: non mi piacciono, dice Di Federico, ma è una logica di contrappeso in cui un potere dice all’altro che è sconsigliabile varcare ogni confine. È tutto lì il problema, che solo una eroica risoluzione ad essere riformatori nonostante tutto avrebbe sciolto nel senso virtuoso (ma il Cavaliere non è Batman).
Se il garantismo da minoranza piena di giudizio e di sapienza è diventato «minoranza sputtanata», come lamenta l’Autore pensando a quasi vent’anni di berlusconismo, la causa è nella trasformazione di una questione generale in una questione personale, una causa di sistema che ha afflitto anche su altri piani tutta la nostra recente storia politica.
Infine il cattolicesimo romano, quello non riformato. Ha molte e radicate e antiche colpe, la cultura cattolica, non sarebbe serio negarlo, e soprattutto in fatto di giustizia. Ma Mellini dovrebbe riflettere - e Marafioti avrebbe dovuto fare altrettanto - sul fatto che, in nome della Coscienza intesa come sintesi e ipostasi del bene, i puritani del caso Ruby portarono un bambino a denunciare l’immoralità del nemico in pubblica assemblea, l’adunata talebana del Palasharp; mentre un Papa, e solo un Papa, baciò Andreotti nella stessa guancia che, secondo gli «impunitari» alla Gaspare Mutolo e alla Totò Di Maggio, sarebbe stata recettiva di un bacio di Totò Riina.

Stile inquisitorio

Assoluzione prima dell’assoluzione. I cattolici sono anche inquisitoriali, come stile, ma la loro sostanza è personalistica, e i loro furori sono i furori evangelici del «non giudicare». Ho sempre avuto molta simpatia per il Grande Inquisitore di Dostoevskij - posso affermare a sorpresa, ora che concludo, quanto poco e solo metodologicamente garantista io sia - ma la storia del silenzio di Cristo, che bacia il cardinale di Siviglia dopo la condanna al rogo, solo loro, i papisti e i preti additati come colpevoli dai nostri amici garantisti veri, potevano inventarla.