Giorgio Montefoschi, Corriere della Sera 18/10/2012, 18 ottobre 2012
Il Master di Ballantrae, di Robert Louis Stevenson, che oggi possiamo leggere nella nuova traduzione, molto buona, di Simone Barillari pubblicato dalla casa editrice Nutrimenti, è un romanzo notturno
Il Master di Ballantrae, di Robert Louis Stevenson, che oggi possiamo leggere nella nuova traduzione, molto buona, di Simone Barillari pubblicato dalla casa editrice Nutrimenti, è un romanzo notturno. Quasi tutte le sue scene fondamentali si svolgono di notte. E, anche quando non si svolgono di notte, sono notturne, e comunque oscure. La loro oscurità, fonda, impenetrabile, è quella che terrorizza i bambini; quella nella quale si muovono gli adulti, quando perdono il lume della ragione, o si lasciano tentare dal demonio; l’angelo che un tempo sapeva cosa fosse la luce, e ora l’ha smarrita per sempre. In una lettera, parecchio citata, a Henry James (curioso che i due protagonisti del Master, che è l’esatto opposto di tutti i romanzi del destinatario della lettera, si chiamino Henry e James) Stevenson scrisse: «Quanto al mio romanzo, si tratta di una tragedia». Ma le tragedie, ancorché non dichiarate, propongono una liberazione. Il Master di Ballantrae non propone nessuna liberazione finale. È un romanzo sulla paura e sul male che al lettore non lascia scampo. Da un punto di vista strettamente letterario, invece, è un romanzo avventuroso (talmente avventuroso, talmente spericolato nell’architettura della trama da far dubitare, a proposito della terza e ultima parte, il suo stesso autore), nel quale l’indagine psicologica corre sul filo delle lame che si incrociano, si contenta delle parole affannate e scabre che talvolta i protagonisti sembrano pronunciare come in sogno, risponde a una meccanica tanto istantanea quanto implacabile di semplici sguardi. Siamo sulla costa Sud-Ovest della Scozia, alla metà del Millesettecento. Nel castello di Durrisdeer vive l’antica e nobile famiglia dei Durie: composta da un padre vedovo, cupo, amante delle buone letture; dal primogenito James; dal secondogenito Henry; da una cugina, Alison, erede di una cospicua fortuna in America, cresciuta insieme a loro. Come verremo presto a sapere, i due fratelli sono il contrario l’uno dell’altro. James (il prediletto di suo padre) sembra possedere tutte le doti che Lucifero gli mette a disposizione per farsi amare e detestare nello stesso tempo: è un prepotente e un materiale, che però legge l’Enriade di Voltaire e la Pamela di Richardson oltre a difficili libri di matematica, e la sera, di fronte alle braci spente del camino, sa sfiorare il braccio del vecchio lord con una tenerezza infinita; è un donnaiolo privo di scrupoli, frequentatore delle peggiori bettole, capace di rapire il cuore timoroso e semplice di sua cugina; è violento, arrogante, sprezzante e, nello stesso tempo, tanto persuasivo nel cantare antiche ballate malinconiche da far sorgere le lacrime persino sulle ciglia di chi vorrebbe ammazzarlo. Henry è un ragazzo privo di doti particolari; è «onesto e solido»; attento amministratore delle proprietà; incerto nell’esprimersi; frenato da una pericolosa fragilità dei nervi. Caino e Abele. L’occasione che fa scoppiare l’odio di James (abituato a non essere contraddetto) e il latente istinto di ribellione di Henry, nasce da un evento storico (il tentativo della dinastia degli Stuart di riappropriasi del trono di Scozia e poi di quello di Gran Bretagna) che mette in seria difficoltà la famiglia Durie: stare con i pretendenti o col re? È un intreccio politico assai complicato che ha importanza relativa nell’economia profonda del romanzo. Il punto è un altro: quale dei due fratelli dovrà rimanere a casa e quale dei due dovrà andare a dimostrare il suo valore in battaglia? Entrambi vorrebbero la battaglia. Viene dunque lanciata una moneta: testa o croce. È la moneta del destino: vince James. Riassumere diligentemente la trama del Master di Ballantrae (raccontata da un testimone di quasi tutte le vicende, tale Mackellar, fedele servitore della famiglia e di Henry, e poi da altri personaggi che si aggiungono al narratore principale, come si conviene a tutte le trame che non hanno un solo ingranaggio, ma decine, centinaia, e si perdono, si nascondono) è praticamente impossibile; e inutile in realtà. Al lettore è sufficiente sapere che James morirà in battaglia, quantomeno è dato per morto, e riapparirà dopo molti anni a Durrisdeer, povero e affamato di danaro; che Henry, ormai Master di Ballantrae, è sposato con la cugina e padre di una bambina; che la quiete del castello viene infranta; che il desiderio di vendetta nutrito da James per quella che lui ritiene una doppia usurpazione (il titolo e la moglie) si accompagna alla «pura e semplice delizia nell’esser crudele, come si riscontra a volte nei gatti, e i teologi ci spiegano che è il diavolo»; che questa crudeltà si indirizza principalmente nel corteggiare la moglie di Henry e nell’umiliare lui; che una sera James dirà a Henry: «Non ho mai conosciuto una donna che non abbia preferito me a te, e che, penso, non continui a preferire me»; che dopo questa offesa ci sarà un duello al lume delle candele, in un bosco, nel quale James cadrà morto, ma che dopo neppure un’ora il morto è scomparso, non si troverà più; che dopo anni e anni, quando è nato un secondo bambino, Alexander, il morto si rifarà vivo, insieme a un misterioso personaggio, tale Secundra Dass, incontrato in India; che riprenderà la tortura, riprenderanno le richieste di danaro; che Henry e la moglie decideranno di rifugiarsi in America, per scappare al demonio, e il demonio li inseguirà; che Henry, perseguitato dall’odio, comincia a odiare a sua volta e architetta un piano per il quale James, alla caccia di un suo tesoro nascosto nelle terre selvagge abitate dagli indiani, dovrà essere ucciso da chi lo scorta; che James cadrà nel tranello e sarà ucciso e sepolto, e di nuovo, una terza volta, seppure per una frazione di secondo, dopo una settimana, resusciterà sotto le mani del mago Secundra Dass; che Henry, vedendo gli occhi del fratello che si riaprono, morirà di colpo. Questa, per sommi capi, la trama. Ma, a prescindere dalla trama, quale intensità, quale vertigine nei momenti culminanti in cui esplodono il male e la paura! E quale febbre in quelli che li seguono, e ancora li precedono, e ancora li seguono in una catena di angosce, di presagi, di incubi! C’è qualcosa di più pauroso, di più sconvolgente della riapparizione o del risveglio di un morto? «Non è di questo mondo — grida a un tratto Henry, vicino alla follia — né lui, né il nero demonio alle sue dipendenze. Gli ho conficcato la spada nel ventre con le mie mani!». Si sbaglia. Il demonio non è alle dipendenze del fratello cattivo. Il demonio ha conquistato l’anima del fratello cattivo; e ora vuole anche la sua: vuole anche l’anima del fratello buono. E finché non se la prende, insieme al suo corpo, non è sazio. Vuole Caino e Abele. Vuole tutto. E ai due sepolcri affiancati sperduti nella foresta, ai due fratelli degradati dall’odio, immobili, uno accanto all’altro, sotto un metro di terra indurita dal ghiaccio, non prospetta nessuna resurrezione.