Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  ottobre 18 Giovedì calendario

Il Master di Ballantrae, di Robert Louis Stevenson, che oggi possiamo leggere nella nuova traduzione, molto buona, di Simone Barillari pubblicato dalla casa editrice Nutrimenti, è un romanzo notturno

Il Master di Ballantrae, di Robert Louis Stevenson, che oggi possiamo leggere nella nuova traduzione, molto buona, di Simone Barillari pubblicato dalla casa editrice Nutrimenti, è un romanzo notturno. Quasi tutte le sue scene fondamentali si svolgono di notte. E, anche quando non si svolgono di notte, sono notturne, e comunque oscure. La loro oscurità, fonda, impenetrabile, è quella che terrorizza i bambini; quella nella quale si muovono gli adulti, quando perdono il lume della ragione, o si lasciano tentare dal demonio; l’angelo che un tempo sapeva cosa fosse la luce, e ora l’ha smarrita per sempre. In una lettera, parecchio citata, a Henry James (curioso che i due protagonisti del Master, che è l’esatto opposto di tutti i romanzi del destinatario della lettera, si chiamino Henry e James) Stevenson scrisse: «Quanto al mio romanzo, si tratta di una tragedia». Ma le tragedie, ancorché non dichiarate, propongono una liberazione. Il Master di Ballantrae non propone nessuna liberazione finale. È un romanzo sulla paura e sul male che al lettore non lascia scampo. Da un punto di vista strettamente letterario, invece, è un romanzo avventuroso (talmente avventuroso, talmente spericolato nell’architettura della trama da far dubitare, a proposito della terza e ultima parte, il suo stesso autore), nel quale l’indagine psicologica corre sul filo delle lame che si incrociano, si contenta delle parole affannate e scabre che talvolta i protagonisti sembrano pronunciare come in sogno, risponde a una meccanica tanto istantanea quanto implacabile di semplici sguardi. Siamo sulla costa Sud-Ovest della Scozia, alla metà del Millesettecento. Nel castello di Durrisdeer vive l’antica e nobile famiglia dei Durie: composta da un padre vedovo, cupo, amante delle buone letture; dal primogenito James; dal secondogenito Henry; da una cugina, Alison, erede di una cospicua fortuna in America, cresciuta insieme a loro. Come verremo presto a sapere, i due fratelli sono il contrario l’uno dell’altro. James (il prediletto di suo padre) sembra possedere tutte le doti che Lucifero gli mette a disposizione per farsi amare e detestare nello stesso tempo: è un prepotente e un materiale, che però legge l’Enriade di Voltaire e la Pamela di Richardson oltre a difficili libri di matematica, e la sera, di fronte alle braci spente del camino, sa sfiorare il braccio del vecchio lord con una tenerezza infinita; è un donnaiolo privo di scrupoli, frequentatore delle peggiori bettole, capace di rapire il cuore timoroso e semplice di sua cugina; è violento, arrogante, sprezzante e, nello stesso tempo, tanto persuasivo nel cantare antiche ballate malinconiche da far sorgere le lacrime persino sulle ciglia di chi vorrebbe ammazzarlo. Henry è un ragazzo privo di doti particolari; è «onesto e solido»; attento amministratore delle proprietà; incerto nell’esprimersi; frenato da una pericolosa fragilità dei nervi. Caino e Abele. L’occasione che fa scoppiare l’odio di James (abituato a non essere contraddetto) e il latente istinto di ribellione di Henry, nasce da un evento storico (il tentativo della dinastia degli Stuart di riappropriasi del trono di Scozia e poi di quello di Gran Bretagna) che mette in seria difficoltà la famiglia Durie: stare con i pretendenti o col re? È un intreccio politico assai complicato che ha importanza relativa nell’economia profonda del romanzo. Il punto è un altro: quale dei due fratelli dovrà rimanere a casa e quale dei due dovrà andare a dimostrare il suo valore in battaglia? Entrambi vorrebbero la battaglia. Viene dunque lanciata una moneta: testa o croce. È la moneta del destino: vince James. Riassumere diligentemente la trama del Master di Ballantrae (raccontata da un testimone di quasi tutte le vicende, tale Mackellar, fedele servitore della famiglia e di Henry, e poi da altri personaggi che si aggiungono al narratore principale, come si conviene a tutte le trame che non hanno un solo ingranaggio, ma decine, centinaia, e si perdono, si nascondono) è praticamente impossibile; e inutile in realtà. Al lettore è sufficiente sapere che James morirà in battaglia, quantomeno è dato per morto, e riapparirà dopo molti anni a Durrisdeer, povero e affamato di danaro; che Henry, ormai Master di Ballantrae, è sposato con la cugina e padre di una bambina; che la quiete del castello viene infranta; che il desiderio di vendetta nutrito da James per quella che lui ritiene una doppia usurpazione (il titolo e la moglie) si accompagna alla «pura e semplice delizia nell’esser crudele, come si riscontra a volte nei gatti, e i teologi ci spiegano che è il diavolo»; che questa crudeltà si indirizza principalmente nel corteggiare la moglie di Henry e nell’umiliare lui; che una sera James dirà a Henry: «Non ho mai conosciuto una donna che non abbia preferito me a te, e che, penso, non continui a preferire me»; che dopo questa offesa ci sarà un duello al lume delle candele, in un bosco, nel quale James cadrà morto, ma che dopo neppure un’ora il morto è scomparso, non si troverà più; che dopo anni e anni, quando è nato un secondo bambino, Alexander, il morto si rifarà vivo, insieme a un misterioso personaggio, tale Secundra Dass, incontrato in India; che riprenderà la tortura, riprenderanno le richieste di danaro; che Henry e la moglie decideranno di rifugiarsi in America, per scappare al demonio, e il demonio li inseguirà; che Henry, perseguitato dall’odio, comincia a odiare a sua volta e architetta un piano per il quale James, alla caccia di un suo tesoro nascosto nelle terre selvagge abitate dagli indiani, dovrà essere ucciso da chi lo scorta; che James cadrà nel tranello e sarà ucciso e sepolto, e di nuovo, una terza volta, seppure per una frazione di secondo, dopo una settimana, resusciterà sotto le mani del mago Secundra Dass; che Henry, vedendo gli occhi del fratello che si riaprono, morirà di colpo. Questa, per sommi capi, la trama. Ma, a prescindere dalla trama, quale intensità, quale vertigine nei momenti culminanti in cui esplodono il male e la paura! E quale febbre in quelli che li seguono, e ancora li precedono, e ancora li seguono in una catena di angosce, di presagi, di incubi! C’è qualcosa di più pauroso, di più sconvolgente della riapparizione o del risveglio di un morto? «Non è di questo mondo — grida a un tratto Henry, vicino alla follia — né lui, né il nero demonio alle sue dipendenze. Gli ho conficcato la spada nel ventre con le mie mani!». Si sbaglia. Il demonio non è alle dipendenze del fratello cattivo. Il demonio ha conquistato l’anima del fratello cattivo; e ora vuole anche la sua: vuole anche l’anima del fratello buono. E finché non se la prende, insieme al suo corpo, non è sazio. Vuole Caino e Abele. Vuole tutto. E ai due sepolcri affiancati sperduti nella foresta, ai due fratelli degradati dall’odio, immobili, uno accanto all’altro, sotto un metro di terra indurita dal ghiaccio, non prospetta nessuna resurrezione.