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 2012  ottobre 17 Mercoledì calendario

QUANDO LE VIE DEI CANTI RISUONAVANO NEGLI OCEANI

[Nomadi sì, ma soprattutto marinai: la colonizzazione dimenticata della Terra] –
Due terzi del mondo sono sott’acqua, noi esseri umani, invece, siamo, per definizione, creature terrestri, che hanno popolato il pianeta spostandosi a piedi. Eppure - ci illumina Brian Fagan, britannico di nascita e professore emerito di Antropologia all’Università di California, nel nuovo libro sull’espansione globale dell’uomo «Beyond the Blue Horizon» - 50 mila anni fa siamo diventati marinai sempre più avventurosi, costantemente guidati da ciò che i vichinghi chiamavano «Aefintyre», vale a dire «un’inquieta curiosità per ciò che si trova al di là dell’orizzonte».

La passione di Fagan per le barche a vela e gli studi scientifici, archeologici e antropologici l’hanno portato a navigare sulle orme dei nostri antenati nei mari e negli oceani, seguendo proprio quei marinai intrepidi e la loro incredibile capacità di leggere il mare e il vento prima che i Gps, la radio e il diesel ci scollegassero irreparabilmente, come specie, dall’intima interdipendenza tra cielo e mare.

Ma che cosa ha spinto i primi marinai a inventare una canoa e a pagaiare più lontano di quanto potessero nuotare? Fagan documenta la storia della ricerca del dominio sull’oceano - quel grande fiume che circonda la Terra – seguendo le gesta dell’ uomo nel Sud e nel Nord Pacifico, nel Mare del Nord e nell’Atlantico, nel Mediterraneo e nell’Oceano Indiano. Perché i polinesiani si sono avventurati nel Pacifico e come hanno fatto ad arrivare nelle loro isole? Perché i greci, insediati sul continente eurasiatico, avevano una così forte vocazione per il mare? Perché i vichinghi, invece di mappare le coste del Mare del Nord per poi dirigersi verso l’Islanda, la Groenlandia e il Nord America, non si sono diretti a Sud, verso climi più caldi? Perché, in generale, questi uomini - i più intraprendenti della specie - sembrarono ignorare il Pianeta Terra per esplorare il Pianeta Blu, «oltre l’orizzonte»?

Fagan analizza le complesse relazioni che i nostri antenati intrecciarono «con paesaggi dominati da forze incontrollabili, acque abitate da bestie potenti e divinità, così come dagli antenati». E immagina come nel mondo di 40 mila anni fa - in mancanza di testimonianze archeologiche - gli aborigeni potessero «sognare il mare», in una realtà di venti monsonici ciclici, attraverso «paesaggi marini della memoria», in un modo analogo a quello con cui, oggi, continuano a «cantare» la loro strada attraverso l’outback australiano. Quei marinai, di sicuro, sfruttavano le stelle, i venti, le stagioni e le migrazioni degli uccelli e anche le vibrazioni delle scogliere più lontane per tracciare le rotte.

Fagan si dice molto colpito da certe coincidenze, proprio come lo fu James Cook nel 1778, quando, navigando a Nord-Est di Tahiti, non solo scoprì le Hawaii, ma anche che gli abitanti parlavano la stessa lingua di Tahiti e della Nuova Zelanda, a 4300 miglia di distanza. «Non si sa quanto si estendano in entrambe le direzioni le colonie, ma ciò che sappiamo già conferma la nostra convinzione che siano, anche se forse non le più numerose, sicuramente, le più estese sulla terre»: così recitava il diario di Cook. E non è un caso che il suo pilota thaitiano, Tupaia, lo portò con infallibile precisione proprio in Nuova Zelanda, anche se non lì non aveva mai messo piede prima.

Sono il Mediterraneo e l’Oceano Indiano a portarci finalmente in tempi archeologici e storici. Lì la navigazione era per lo più di «cabotaggio», seguendo la linea costiera, mentre il centro del mare era, nelle parole di Braudel, «vuoto come un deserto», mentre tra Africa e Arabia erano i monsoni il «motore» di tutto. Ma si tratta di realtà che impallidiscono di fronte alle gigantesche spedizioni cinesi in Africa al comando dell’eunuco Zheng He, all’inizio del XV secolo, con una flotta di navi colossali, lunghe 130 metri e larghe 54, con 12 vele ed equipaggi di un migliaio di uomini. Eppure la reazione dell’imperatore cinese fu quella di richiamare la flotta e distruggerla con tutti i resoconti delle sue spedizioni, in quanto si trattava di «racconti ingannevoli di cose bizzarre».

Il messaggio implicito di «Beyond the Blue Horizon» è che, se nel breve tempo di una vita abbiamo perso, grazie all’ elettronica, le nostre capacità di sopravvivenza, ora non sappiamo nemmeno più come siamo arrivati al punto in cui ci troviamo, abbandonati al di là dell’orizzonte del mare.