Alan B. Krueger, Il Sole 24 Ore 17/10/2012, 17 ottobre 2012
SE GLI STATES PERDONO IL CETO MEDIO - I
lavoratori americani vivono tempi duri: i disoccupati sono milioni e un gran numero di persone è sottoccupato. La mancanza d’impiego colpisce in particolar modo la classe media, ma le cause non sono tutte riconducibili alla crisi finanziaria e alla recessione che ne è conseguita. L’emergenza del lavoro negli Stati Uniti dura ormai da diversi anni ed è iniziata ben prima dello scoppio della bolla immobiliare. A ben vedere, dal suo insediamento, sono ben tre le crisi occupazionali che il presidente Barack Obama si è trovato a fronteggiare.
La prima crisi, ovviamente, è stata quella legata all’acuta recessione economica: nel gennaio 2009, quando Obama è arrivato alla Casa Bianca, l’America perdeva già 800mila posti di lavoro ogni mese. Eppure, se guardiamo ai dieci anni precedenti notiamo anche un secondo problema: già in quel decennio l’economia statunitense era diventata incapace di creare lavoro e di soddisfare la domanda occupazionale della classe media. Ancor prima della recessione, insomma, si perdevano posti di lavoro a un ritmo allarmante, in particolare nell’industria. La crisi economica ha solo aggravato il problema, ma non bisogna dimenticare – ed è questa la terza questione in campo – che il mercato del lavoro americano ha sperimentato anche una crescente polarizzazione: il numero di persone collocate agli estremi – superiore e inferiore – della scala socioeconomica è andato aumentando costantemente a danno della media borghesia, che man mano si è ridotta. È un fenomeno che possiamo definire deficit occupazionale della classe media e che trae origine da un duplice difetto, ciclico e strutturale, nel meccanismo di creazione del lavoro. L’America, insomma, da un lato dovrebbe creare maggiore impiego per la classe media, eppure, dall’altro, stenta a farlo per una serie di ragioni, tra cui i cambiamenti tecnologici e gli effetti della globalizzazione economica.
Sulla tecnologia abbiamo assistito, negli ultimi anni, a notevoli sviluppi in vari campi, specialmente nelle telecomunicazioni. Al contempo, però, come mostrano le ricerche (interessante in particolare quella di David Auter del Massachusetts Institute of Technology), dai primi anni Duemila la Cina ha preso a competere strenuamente con molte imprese americane: il suo successo si può toccare con mano in varie contee degli Stati Uniti, dove la concorrenza asiatica ha fatto finire fuori mercato le imprese locali.
Tuttavia, se questo è il quadro dal lato della domanda di lavoro, anche dal lato dell’offerta l’America non è riuscita a tenere il passo, soprattutto in termini di formazione e di competenze dei propri lavoratori. La spettacolare performance del Paese nel secondo dopoguerra fu dovuta in misura non trascurabile all’indiscusso primato educativo che vedeva gli Stati Uniti al primo posto per numero di diplomati e di laureati. Ora, invece, l’America è a livelli comparabili con quelli di altri Paesi occidentali: abbiamo i sessantenni più istruiti al mondo, ma se guardiamo ai trentenni ci collochiamo a metà della classifica stilata dall’Ocse. Questo è un problema: altri Paesi, infatti, hanno fatto molto più degli Stati Uniti per favorire la crescita, continuando a innalzare il livello d’istruzione e le competenze professionali della propria popolazione.
In questa situazione la classe media ha un problema specifico: anche chi ha un impiego guadagna spesso meno di prima. Ciò contribuisce notevolmente all’aumento delle disuguaglianze. La ricchezza si concentra nelle mani di chi si trova al vertice della piramide socioeconomica: gli individui più benestanti potranno certo investire parte delle loro fortune in innovazione, il che è un bene, ma queste sperequazioni estreme non sono nell’interesse dell’America, né degli stessi super-ricchi.
Quest’anno la relazione economica annuale del presidente ha rivelato che dal 1979 a oggi il reddito dell’1% più ricco della popolazione statunitense è cresciuto del 14%: in pratica, questa esigua minoranza ha visto le proprie entrate aumentare di una somma pari al reddito del 40% più povero della popolazione. Si tratta di uno spostamento enorme, che di per sé non è positivo o negativo ma che ha vaste implicazioni in termini di crescita economica. I super-ricchi, infatti, spendono una quota nettamente inferiore del loro reddito rispetto al resto della popolazione: le stime più accurate parlano di circa il 50% confrontato con una media del 90% degli altri cittadini. La concentrazione della ricchezza nelle fasce di reddito più alte si è tradotta in una riduzione della spesa per consumi di oltre 400 miliardi di dollari all’anno: pur spendendo molto, i super-ricchi hanno infatti patrimoni tali che la loro propensione al consumo risulta decisamente minore rispetto a quella dei redditi medi, mentre il loro tasso di risparmio è di gran lunga maggiore.
Ovviamente, risparmiare non è ipso facto un male per l’economia statunitense, purché i risparmi siano investiti produttivamente. Fra gli investimenti possibili quello in capitale umano risulta essere il più importante per l’economia nazionale: sinora l’America ha mantenuto una posizione di vantaggio economico grazie a una forza lavoro estremamente specializzata e preparata. Tuttavia, l’aumento esponenziale delle disparità di ricchezza rende molto più difficile l’accesso a un’istruzione valida per le persone di reddito medio-basso. Un ragazzo di famiglia agiata che totalizza 1.100 punti ai test d’ingresso universitari ha molte più probabilità di conseguire la laurea rispetto a un suo coetaneo di basso reddito, che vanta un punteggio di 1.300. Ciò indica che gli Stati Uniti non sfruttano appieno i loro talenti – un fenomeno che certo non giova all’economia. La storia ci insegna, infatti, che la prosperità dell’America è strettamente legata a quella della sua classe media e questo vale anche per i più ricchi, che dal benessere generalizzato hanno sempre tratto giovamento. È dunque nell’interesse dell’intero Paese riequilibrare la situazione e promuovere politiche in grado di rafforzare la classe media.
Gli americani si sono sempre vantati di vivere in una società estremamente mobile, capace di offrire una potenziale chance di successo a chiunque, indipendentemente dalle proprie origini. L’aumento della diseguaglianza, però, si traduce in un declino della mobilità sociale: studi recenti indicano che l’attuale correlazione tra il reddito dei genitori e quello dei figli è di circa 0,5. In pratica, le probabilità che un individuo passi dal 10% più povero della popolazione al 10% più ricco sono pari a quelle che un individuo alto meno di 1,50 generi un figlio alto 1,80 o più: succede, ma non molto spesso.
Per far sì che l’America resti una terra delle opportunità, dobbiamo fornire più occasioni d’istruzione ai ragazzi, indipendentemente dalle loro origini, e dobbiamo migliorare la qualità dell’istruzione primaria al pari di quella universitaria. Far crescere una società che consenta alle persone di salire la scala del reddito a prescindere dalle condizioni di partenza, facendo leva sul loro talento, è nell’interesse del Paese.
Alan B. Krueger è capo del comitato
dei Consiglieri economici di Barack Obama