Alebrto Mattioli, La Stampa 17/10/2012, 17 ottobre 2012
Più che desta, l’Italia si è mossa. A parte le ricorrenti calate, invasioni e occupazioni dall’estero subite da un popolo abituato a essere, come diceva Voltaire, «il premio del vincitore», da secoli gli italiani si spostano su e giù per uno stivale di varia gradevolezza ma sempre affollato
Più che desta, l’Italia si è mossa. A parte le ricorrenti calate, invasioni e occupazioni dall’estero subite da un popolo abituato a essere, come diceva Voltaire, «il premio del vincitore», da secoli gli italiani si spostano su e giù per uno stivale di varia gradevolezza ma sempre affollato. Adesso una ricerca scientifica ricostruisce cinque secoli di migrazioni interne grazie a un’incredibile ricerca sui cognomi. La rivista americana «Human biology» ha appena pubblicato il ponderoso studio, una specie di «Cognome della rosa» che partendo da come si chiamano racconta dove sono andati gli italiani. L’impresa è stata realizzata da Franz Manni, un genetista antropologo di Ferrara che è «maître de conférences» al Muséum national d’Histoire naturelle di Parigi insieme al gruppo di Alessio Boattini dell’Istituto di Biologia dell’Università di Bologna e a quello di Gianna Zei dell’Istituto di Genetica molecolare di Pavia. Uno dei rari casi di uno studio scientifico eccezionalmente interessante anche per i profani. Tutto inizia dagli elenchi telefonici italiani del 1997. Da lì sono stati estratti 77.451 cognomi, escludendo o quelli estremamente rari o quelli «polifiletici», cioè troppo frequenti per avere una zona d’origine doc, tipo i soliti Ferrari, Rossi, Verdi, Bosco e così via. Tre quarti di questi cognomi vengono da una zona più o meno identificata. Lo sappiamo, anzi lo sanno Manni & Co., perché dal Concilio di Trento, nel XVI secolo, le parrocchie italiane sono state obbligate a tenere i registri delle nascite e si è generalizzato l’uso dei cognomi che peraltro, a seconda delle regioni, era diffuso già dalla fine del Medioevo. Il passo seguente è stato confrontare la diffusione dei cognomi di cinque secoli fa con quella del 1997. «In pratica spiega Manni - se sappiamo che il cognome Pallino viene, per esempio, da Trento, possiamo sapere quanti Pallino vivono ancora a Trento e quanti se ne sono andati, e dove». Certo, è impossibile sapere quando, nel lasso di tempo intercorso fra la Controriforma e il primo governo Berlusconi, messer Pallino abbia deciso di lasciare la sua Trento per cercare fortuna altrove. Però così si sono potute dividere le 97 provincie italiane del ‘97 (poi ovviamente aumentate come ogni ente inutile e costoso) in quattro grandi gruppi. Il primo è quello delle province «non attrattive», quelle, cioè, da cui è emigrata più gente e ce n’è immigrata meno. Sono, ovviamente, quelle del Sud e anche del Triveneto (che fino al secondo dopoguerra era poverissimo), ma il record appartiene a Lecce. Il barocco, le orecchiette e il mare vicino, evidentemente, non bastano: è la provincia che ha diffuso di più i suoi cognomi nel resto d’Italia e ne ha accolti di meno. Dall’altro lato della scala ci sono le province più attrattive da cui nessuno si muove ma cui tutti muovono. In testa, come prevedibile, le tre grandi città: Roma, Milano e Torino. Lì van tutti: nessuna sorpresa. Però il signor Pautasso di Torino sappia che con ogni probabilità è dal Rinascimento che la sua famiglia vive a Torino o nei dintorni. Le altre due categorie di province sono le isolate e i «corridoi». Le isolate sono quelle in cui nessuno si trasferisce ma da cui nessuno se ne va. Sul podio, Bolzano, Cagliari e Trento, quindi molto probabilmente i Pallino di cui sopra in realtà sono sempre rimasti lì. I «corridoi», invece, sono le province «di passaggio», quelle da cui molti sono partiti ma in cui molti sono andati. Sono soprattutto in zona tirrenica, fra Liguria, Toscana e Lazio. Mobilità massima in due province toscane, Grosseto e Livorno (che si spiega forse con la nascita artificiale, decisa a tavolino, di Livorno come porto franco). Lo studio smonta definitivamente le mitomanie locali su quella specie di toscanità «razziale» rivendicata dagli autoctoni. «I toscani sono una costruzione culturale», taglia corto il professor Manni. E il fatto che le famiglie citate nella «Divina commedia» siano ancora tutte lì, agli stessi indirizzi del Dugento, non vuol dire proprio nulla.