Paolo Di Stefano, Corriere della Sera 17/10/2012, 17 ottobre 2012
Nel comunicare a Vittorini che la commedia di Ottiero Ottieri che ha tra le mani, Amore e affari, è secondo lui «una bojata totale», in una lettera del 27 aprile 1959 Italo Calvino manifestava il suo imbarazzo rispetto all’autore di Tempi stretti: «Il caso Ottieri è per me disagevole perché lui m’incolpa di non aver letto con la dovuta sollecitudine il suo diario d’azienda; e Einaudi m’incolpa d’avercelo fatto perdere»
Nel comunicare a Vittorini che la commedia di Ottiero Ottieri che ha tra le mani, Amore e affari, è secondo lui «una bojata totale», in una lettera del 27 aprile 1959 Italo Calvino manifestava il suo imbarazzo rispetto all’autore di Tempi stretti: «Il caso Ottieri è per me disagevole perché lui m’incolpa di non aver letto con la dovuta sollecitudine il suo diario d’azienda; e Einaudi m’incolpa d’avercelo fatto perdere». In effetti, la coppia responsabile dei Gettoni si lasciò sfuggire Donnarumma all’assalto, dopo aver tenuto a battesimo Ottieri con il romanzo d’esordio Memorie dell’incoscienza (1954) e dopo aver pubblicato, nel 1957, Tempi stretti, tra i primissimi esempi di narrativa industriale (il romanzo è stato da poco riproposto da Hacca con prefazione di Giuseppe Lupo): «un libro molto importante e atteso e utile, per la sua seria impostazione documentaria», scriverà Calvino, pur senza nascondere i suoi dubbi sulle parti «psicologico-erotiche» e sulla tristezza generale che a suo parere pesava sul testo. Decisamente più dura l’opinione di Vittorini. A proposito del terzo libro, in un carteggio con l’editore torinese, Ottieri lamentava di aver sentito crescere troppe riserve nei suoi confronti, tanto da considerarsi «fuori» e da accogliere con slancio la proposta di Valentino Bompiani (suo zio acquisito da quando, una decina d’anni prima, Ottiero aveva sposato Silvana Mauri). E da Donnarumma in poi (1959), sarà infatti Bompiani il suo nuovo editore: con quel libro Ottieri spostava il racconto di alienazione da Nord a Sud, in una industria di macchine per ufficio sorta ai confini di un porto. Ma la vera svolta era nella riduzione del già esile filo narrativo a vantaggio dell’elemento saggistico-diaristico. Ora, dopo il Meridiano del 2009, nel confortante recupero di Ottieri a dieci anni dalla morte ritorna anche, per Guanda e con la prefazione di Furio Colombo, il «taccuino industriale» La linea gotica, la cui prima uscita in volume è datata 1962, ma che gli stessi Vittorini e Calvino anticiparono parzialmente l’anno prima nel famoso numero 4 del «Menabò», con una breve nota in qualche modo riparatrice in cui quel «repertorio di argomenti morali e di ricordi» veniva definito «efficacemente complementare alla ricerca narrativa vera e propria». Come avvertirà un lettore acuto quale è stato Giuliano Gramigna, ciascun libro di Ottieri anche a venire «segna l’emergenza di un reale al momento irresistibile e totalizzante e le terapie scrittorie messe in atto per fronteggiarlo». Fatto sta che in quel diario di un decennio (1948-1958) si coglie in fieri il bilancio sofferto di un’esperienza e di un’illusione che si stava via via consumando: «Il cristallo perfetto del romanzo sulla fabbrica si è spaccato, — scrive Giuseppe Montesano nell’Introduzione al Meridiano, — la guarigione promessa dal lavoro non c’è stata né ci sarà, sta invece per cominciare una lunga stagione all’inferno». In una nota che chiude il 1957, si legge: «La "via aziendale alla classe operaia" è una via lunga; ma, alla fine, chiusa. O ci trovi, in fondo, il padrone; o, nel migliore dei casi, la tua stessa coscienza e la storia, che la sbarrano». Nel passaggio dell’autore-narratore da Roma a Milano si esaurisce l’illusione politico-civile, si insinua il disinganno, e si va frantumando così anche la possibilità di una narrazione per quanto possibile lineare. Il delirio e la nevrosi del singolo prenderanno il sopravvento fino a diventare «trame più intime, individuali, libere dal condizionamento sociologico», la linea gotica è una linea mentale che riassume le contraddizioni tra pubblico e privato, le cesure tra classe e vita individuale, tra dover essere ed essere, tra Storia e storia, tra realtà e irrealtà, tra impegno e distrazione: «Fantasticare, nel cuore dell’inverno, una fuga, una evasione a Capo Palinuro. E i metallurgici?». Alla fine però, senza forzare troppo le cose, La linea gotica si offre al lettore di oggi come la straordinaria rivelazione, per lampi, dello spappolamento del lavoro con le terribili frustrazioni che ne derivano. E ci si può divertire (si fa per dire) prendendo qua e là un frammento a caso per trovare verità che dopo cinquant’anni appaiono persino abbaglianti: «Le lusinghe dei padroni. E poi di nuovo, di colpo, la prepotenza». Oppure, semplicemente: «Il basso stipendio paralizza i gangli, i centri nervosi. Li succhia».