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 2012  ottobre 16 Martedì calendario

LETTERA DI LORIS D’AMBROSIO

“SIGNOR PRESIDENTE NON HO MAI ESERCITATO PRESSIONI O INGERENZE” –
Signor Presidente,

I fatti di questi giorni mi hanno profondamente amareggiato personalmente, ma, in via principale, per la consapevolezza che la loro malevola interpretazione sta cercando di spostare sulla Sua figura e al Suo altissimo ruolo istituzionale condotte che soltanto a me sono invece riferibili.

Come il Procuratore di Palermo ha già dichiarato e come sanno anche tutte le autorità giudiziarie a qualsiasi titolo coinvolte nella gestione e nel coordinamento dei vari procedimenti sulle stragi di mafia del 1992 e 1993, non ho mai esercitato pressioni o ingerenze che, anche minimamente potessero tendere a favorire il senatore Mancino o qualsiasi altro rappresentante dello Stato comunque implicato nei processi di Palermo, Caltanissetta e Firenze.

Con quelle autorità giudiziarie, mi sono comportato con lo stesso rispetto che, sia in questi anni sia all’inizio della mia attività professionale, ha ispirato i miei comportamenti con chi è chiamato a esercitare in autonomia e indipendenza le funzioni di magistrato. Qualunque mio collega può esserne testimone.

Quel che, con espresso riguardo ai procedimenti sulle stragi, ho invece sempre ritenuto e poi stigmatizzato in qualunque colloquio è che la criticità e i contrasti sullo svolgimento di quei procedimenti non giovano al buon andamento di indagini che imporrebbero, per la loro complessità, delicatezza e portata, strategie unitarie, convergenti e condivise oltre che il ripudio di metodi investigativi non rigorosi o almeno, no sufficientemente rigorosi nella ricerca delle prove e nella loro verifica di affidabilità; oltre che, ancora, l’abiura di approcci disinvolti non di rado più attenti agli effetti mediatici che alla finalità di giustizia.

Il procuratore generale della Cassazione, il Procuratore nazionale Antimafia, il Consiglio Superiore della Magistratura, la Commissione parlamentare Antimafia, sanno bene che le criticità e i contrasti esistono e sono gravi, ma che ad essi non si riesce a porre effettivo rimedio.

Mi ha turbato leggere nei resoconti di un’audizione all’Antimafia, le dichiarazioni di chi ammette che della cosiddetta trattativa Stato-Mafia uffici giudiziari danno interpretazioni diversificate e spesso confliggenti, ma che ciò è fisiologicamente irrimediabile: come se fosse la stessa cosa trattare lo stesso soggetto da imputato o da testimone o parte offesa, da fonte attendibile o da pericoloso e interessato depistatore.

A tutto ciò consegue però un effetto perverso. Quello che anche interventi volti a stimolare adeguati coordinamenti finalizzati a raggiungere o consentire univoche verità processuali vengano poi letti come modi obliquamente diretti a favorire l’una o l’altra interpretazioni di fatti o situazioni indiziarie o solo sospette su episodi gravissimi della nostra Storia. E, in genere - perché mediaticamente più conveniente - come un modo per impedire che escano “dai cassetti” procedimenti che toccano o lambiscono apparati o rappresentanti istituzionali.

E’ così accaduto che qualche politico o qualche giornalista sia arrivato ad accostare o inserire chi, come me, non accetta schemi o teoremi prestabiliti, all’interno di quella zona grigia che fa di tutto per impedire che si raggiungano le verità scomode del «terzo livello» o, per dirla con altre parole, è partecipe di un «patto col diavolo», non sta dalla parte degli italiani onesti ed è disponibile a fare di tutto per ostacolare un pugno di «pubblici ministeri solitari che cercano la verità sul più turpe affare di Stato della seconda Repubblica: le trattative fra uomini delle istituzioni e uomini della mafia».

Tutto ciò è inaccettabilmente calunnioso. Ma non mi è difficile immaginare che i prossimi tempi vedranno spuntare accuse ancora più aspre che cercheranno di «colpire me» per «colpire Lei».

Non conosco il contenuto delle conversazioni intercettate, ma quel tanto che finora è stato fatto emergere serve a far capire che d’ora in avanti ogni più innocente espressione sarà interpretata con cattiveria e inquietante malvagità.

Ne sarò ancor più amareggiato e sgomento anche perché, come ho detto anche quando sono stato sentito a Palermo come persona informata sui fatti del 1992 e 1993, sono il primo a desiderare che sia fatta luce giudiziaria e storica sulle stragi; perché quei tempi li vissi accanto a Giovanni Falcone poi dedicandomi, assieme a pochi altri, senza sosta a comporre quel sottosistema normativo antimafia che ha minato la forza di Cosa nostra e di organizzazioni similari.

Lei sa che di ciò ho scritto anche di recente su richiesta di Maria Falcone. E sa che, in quelle poche pagine, non ho esitato a fare cenno a episodi del periodo 1989-1993 che mi preoccupano e fanno riflettere; che mi hanno portato a enucleare ipotesi - solo ipotesi- di cui ho detto anche ad altri, quasi preso anche dal vivo timore di essere stato allora considerato solo un ingenuo e utile scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi.

Non le nascondo di aver letto e riletto le audizioni all’Antimafia di protagonisti e comprimari di quel periodo di aver desiderato di tornare anche io a fare indagini, come mi accadde oltre trent’anni fa dopo la morte di Mario Amato, ucciso dai terroristi.

Ecco, che tutti questi sentimenti siano ignorati per compromettere la mia credibilità e, quel che peggio, per utilizzare tale compromissione per «volgerla» contro di Lei, non è per me sopportabile.

Sono certo che, per come mi ha conosciuto in questi anni e nei 10 anni precedenti, Lei comprende il mio stato d’animo.

A Lei rimetto perciò il prestigioso incarico di cui ha voluto onorarmi, dimostrandomi affetto e stima. Con devozione e deferenza. Suo