Luca Iezzi, Affari e Finanza 15/10/2012, 15 ottobre 2012
NUCLEARE ADDIO, ITALIA IN POLE POSITION NEL BUSINESS DELLO SMANTELLAMENTO
Cancellare il nucleare e guadagnarci. L’Europa sta per diventare la mecca di un nuovo tipo di profeti dell’atomo: i “pulitori”. Nei 27 Paesi dell’Unione Europea, 89 centrali nucleari sono in diverse fasi di chiusura e smantellamento: 29 nel Regno Unito, 27 in Germania, 12 in Francia e quattro in Italia. Un mercato che sta per esplodere e che nei prossimi venti anni crescerà di oltre 80 miliardi, passando, secondo le stime del centro studi Nomisma energia, dai 27 miliardi attuali ai 110 nel 2030. L’Europa, continente sempre più marginale dal punto di vista delle nuove aperture, sta per diventare il principale laboratorio per la messa in sicurezza di quelli che rimangono gli impianti industriali più complessi e pericolosi mai concepiti dall’uomo. L’ambizione dichiarata e tecnicamente possibile è non solo bonificare, ma riportare i siti al greenfield, cioè cancellando ogni traccia, visibile o invisibile, di radioattività e scorie. Nel decennio 2020-2030 circa la metà dei 135 reattori da spegnere nel mondo saranno nel Vecchio Continente. Cinque anni fa gli esperti si aspettavano un rinascimento del nucleare e ora ci troviamo nell’età dell’oro degli smantellatori. Dal 2000 ogni anno il numero di impianti spenti e avviati alla chiusura supera quelli attivati, ma sono gli effetti dell’incidente di Fukushima ad aver dato il segnale politico e l’accelerazione decisiva. La Germania si è data termini stringenti
per rinunciare all’elettricità da fonte nucleare, ma anche in Francia, Svizzera e Belgio gli impianti in funzione sin dalla fine degli anni 60 sono considerati delle minacce non più accettabili dalle popolazioni. Antieconomici e malsopportati, l’Unione Europea stima che tre reattori su quattro sono spenti per questi due motivi, non per non essere più sicuri o per aver completato il loro ciclo. Il nuovo scenario propone diverse sfide dal punto di vista economico e regolatorio, ma anche delle opportunità, secondo la Commissione Ue si creerà una domanda di competenze specifiche e oltre 40 mila posti di lavoro altamente qualificati per fronteggiare le sfide del periodo. Significa opportunità per l’Italia, fuori dalle nuove costruzioni e per due volte chiamata a cancellare il nucleare con un referendum. Anzi proprio il nostro rapporto contrastato - e quasi sempre deludente - con l’atomo, può trasformarsi addirittura in un vantaggio. L’eredità elettronucleare in servizio fino a metà degli anni ‘80 è affidata alla Sogin, la società di Stato che gestisce lo smantellamento delle quattro centrali (Trino, Caorso, Garigliano e Latina) e degli 4 altri siti di interesse nucleare. L’azienda si trova per molti versi in una posizione di vantaggio rispetto alle sorelle europee, proprio perché l’opera di smontaggio “definitiva” è iniziata da anni. Con i lavori iniziati a Trino (Vercelli) e le ultime autorizzazioni attese per il sito di Garigliano entro la fine dell’anno, tutte e quattro le “isole nucleari” (gli edifici dove operavano i reattori, il luogo più sensibile) inizieranno ad essere materialmente smontate. Ma già molto è stato fatto come il trasferimento all’estero del 98% del combustibile utilizzato (tornerà dopo un processo di riduzione della radioattività) e soprattutto, ha raggiunto un buon livello di efficienza: una società, in passato spesso al centro di polemiche per gli sprechi sui fondi provenienti dalla bolletta degli italiani, ha chiuso per il secondo anno consecutivo con un utile di bilancio (5 milioni). Il 2011 ha visto anche un aumento dell’attività, del fatturato (245 milioni) e dell’efficienza. Ma quel che più conta è che in questi anni è stato creato un “sistema” che, attraverso protocolli con gli enti locali e le associazioni imprenditoriali, le certificazioni e l’attività sul campo, ha portato alla creazione a alla certificazione di 290 operatori economici capaci di operare nella bonifica dei siti nucleari. Un know how in grado di dare accesso al mercato ultramiliardario nell’Unione Europea, ma anche in Russia e Asia. Il decommissioning della flotta nucleare per ora è rimasto un fatto principalmente nazionale, i governi decidono dove trovare i soldi, i tempi di realizzazione e soprattutto il destino dei rifiuti radioattivi. Tra l’altro le diverse esperienze nel Vecchio Continente hanno almeno due punti in comune: la sistematica sottostima del costo complessivo di tutte le operazioni e l’impossibilità di affidarsi completamente al settore privato. Gli aspetti di sicurezza, controllo e una tempistica che si misura in decenni mal si adatta al ciclo di vita e di business delle aziende private. Persino le utility che gestiscono gli impianti, in molti paesi per legge obbligate ad accantonare nel corso dell’esercizio i fondi destinati al decommissiong non riescono a coprire i costi. In Francia Nomisma Energia stima un fabbisogno da quasi 32 miliardi per far “sparire” il secondo parco più grande del mondo di centrali nucleari. Fattura in gran parte in capo a Edf e Areva, aziende quotate, ma comunque sotto il controllo pubblico. In Germania il mercato vale la metà, 15 miliardi, ma Berlino punta a chiudere la pratica nucleare quasi completamente entro il prossimo decennio. Con le cifre enormi in ballo e visto il coinvolgimento della politica la questione sta diventato sempre più un tema comunitario, anche se per ora appena abbozzato. Oltre alla necessità di regolamenti standard a livello europeo, già ora garantiti da un apposito organismo, c’è la possibilità di sfruttare ed esportare soluzioni ingegneristiche e tecnologiche in grado di abbassare i costi. Questi temi sono stati alla base, l’11 settembre scorso di una tavola rotonda organizzata dal commissariato per l’innovazione e la ricerca a Bruxelles. In quell’occasione l’ad di Sogin Giuseppe Nucci ha proposto di «creare un gruppo ad alto livello con la partecipazione del Centro Comune di Ricerca (JRC) della Commissione e delle maggiori industrie europee specializzate nelle bonifiche nucleari e nella gestione dei rifiuti radioattivi». Un segno di fiducia nell’Europa, che nel 2050 potrebbe essere davvero l’unico organo sovrano a gestire le ultime fasi del decommissioning.