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 2012  ottobre 15 Lunedì calendario

AMERICA, LA TRAPPOLA DEL "FISCAL CLIFF" TASSE E ONERI CHE VALGONO IL 4% DI PIL

New York “Fiscal cliff”, letteralmente: burrone fiscale. Sotto c’è il precipizio. E la caduta, se ci sarà, non riguarda solo l’America. Coinvolgerebbe il mondo intero, cancellando per molto tempo ogni speranza di ripresa. Il dibattito su questo “ciglio del precipizio” è passato in secondo piano perché la campagna presidenziale domina su tutto. Né Barack Obama né Mitt Romney oggi hanno delle soluzioni da proporre all’Apocalisse del bilancio pubblico che si produrrà a fine anno. Quel disastro annunciato è figlio di uno stallo politico: Congresso diviso, maggioranza della Camera in mano al partito repubblicano che boicotta ogni legge di entrata o di spesa del presidente.
Lo stesso stallo potrebbe riproporsi dopo il 6 novembre a prescindere da chi vinca. Se viene rieletto Obama, difficilmente una sua vittoria trascinerebbe con sé una tale avanzata dei democratici da riconquistare anche la maggioranza alla Camera. Se vincerà Romney, è poco probabile che i repubblicani trionfino in proporzioni tali da conquistare anche il Senato (rinnovato solo per un terzo dei seggi). Ma perché c’è questo burrone e l’America si trova a un passo dall’orrido precipizio? Tutto nasce proprio dall’impossibilità di un dialogo bipartisan, dai ricatti e veti incociati, e dall’uso politico che la destra fece dell’allarme downgrading.
Nell’estate 2011 Standard & Poor’s
declassò il rating degli Stati Uniti, e il partito repubblicano minacciò di non votare l’innalzamento del tetto del debito pubblico, un gesto che avrebbe messo il Tesoro di Washington in default tecnico, cessazione dei pagamenti e sospensione di molti servizi pubblici (com’era accaduto in un braccio di ferro analogo tra Bill Clinton e il Congresso nel 1995 e 1996). Per uscire dallo stallo Obama riuscì a far passare una legge basata sul principio della “mutua distruzione reciproca”, proprio come l’equilibrio del terrore nucleare durante la guerra fredda Usa-Urss.
In sostanza Obama negoziando coi repubblicani mise a punto un piano di riequilibrio del deficit pubblico basato su sacrifici inaccettabili da ambo le parti: per i democratici pesanti tagli ai servizi sociali; per i repubblicani aumento d’imposte e tagli al budget militare. E’ proprio questa mannaia automatica che scatterà a partire dalla fine di quest’anno. Obama l’aveva pensata come una via d’uscita: i sacrifici sono così drammatici, che alla fine democratici e repubblicani saranno costretti a trovare intese su un terreno più ragionevole.
Ma nulla negli ultimi mesi ha lasciato intravvedere i segni precursori di un simile ravvedimento. Dunque, è verso il burrone fiscale che marciamo inesorabilmente. Se scatterà, l’impatto recessivo sarà drammatico: una contro-manovra tale da soffocare la crescita americana. Da una parte verrebbero a scadere gli sgravi fiscali di George Bush, concentrati soprattutto in favore dei contribuenti più benestanti. Scadrebbero anche quelle provvidenze per i ceti medio-bassi che Obama inserì nel Tax Relief and Job Creation Act del 2010. Infine scatterebbero i tagli alla spesa elencati nel Budget Control Act del 2011, il trattato- deterrente che prevede l’annientamento reciproco.
E’ un’austerity che evoca le cure da cavallo inflitte dalla troika alla Grecia, solo che qui stiamo parlando dell’economia più grande del mondo. Le entrate fiscali federali aumenterebbero del 19,6% da un anno all’altro. Verrebbero a decadere automaticamente sia gli sgravi di Bush sia quelli di Obama con questo impatto netto: la famiglia media americana subirebbe un aggravio di 3.500 dollari d’imposte, e il suo reddito disponibile al netto del prelievo fiscale scenderebbe del 6,2%. Meno 6% di reddito: immaginarsi con quale effetto sui consumi.
In quanto ai tagli di spesa pubblica, verrebbero spalmati su un decennio ma raggiungerebbero comunque la considerevole cifra di 1.200 miliardi di dollari. Nell’insieme il “fiscal cliff” è l’equivalente di una maximanovra che sottrae all’economia americana il 4% del Pil. Uno studio dell’economista Stephen Fuller prevede 2,14 milioni di disoccupati in più. Il tasso di disoccupazione, che è appena sceso sotto la soglia dell’8% per la prima volta dal 2009 (a settembre si è attesto sul 7,8%) risalirebbe al 9% nel 2013.
Dal Fondo monetario alla Federal Reserve, autorevoli allarmi sono stati lanciati su quel che ci attende alla fine dell’anno. E più ci avviciniamo a quella scadenza più i mercati avranno tendenza ad anticipare i giochi: cominceranno cioè a incorporare nei loro scenari una ricaduta in recessione. Dal punto di vista del suo impatto sociale, il deterrente della “mutua distruzione” è abbastanza ben congegnato. Le vittime del burrone fiscale si trovano ai due estremi della scala dei redditi. I milionari pagherebbero la loro parte: la loro aliquota marginale di prelievo salirebbe dal 38 al 44,2%. Ma anche le famiglie dei lavoratori meno abbienti sarebbero colpite: nella fascia di reddito fra 10.000 e 20.000 dollari annui il prelievo marginale salirebbe dal 16,4% al 20%. Un’equanimità solo apparente. Da una parte perché il sacrificio è più pesante da sopportare per chi già vive in condizioni di bisogno. D’altra parte perché si salverebbero comunque i super-ricchi che come lo stesso Mitt Romney hanno redditi solo da plusvalenza finanziaria: loro resterebbero tassati al 15%. Il colpo lo sentirebbero però le loro imprese. Sul fronte della fiscalità aziendale il burrone fiscale è drammatico. Tra le agevolazioni destinate a cadere sotto la mannaia automatica ci sono diverse misure prese per stimolare gli investimenti: crediti d’imposta per la ricerca, norme che consentono l’ammortizzazione accelerata degli investimenti. Senza parlare del fatto che le imprese sentirebbero un’ulteriore caduta della domanda per la ritirata dei consumi. Negli Stati Uniti il fiscal cliff ha superato perfino la crisi dell’eurozona nell’attenzione degli investitori. Molti vedono nell’incertezza sulle future politiche di bilancio la vera causa di una ripresa ancora anemica, nella quale il ritmo degli investimenti e delle assunzioni è assai inferiore rispetto al trend post- recessivo nei cicli economici precedenti. Perché allora il fiscal cliff occupa così poca attenzione nella campagna elettorale? È sorprendente che Obama e Romney lo abbiano praticamente ignorato nel loro primo duello televisivo, il 3 ottobre, che era dedicato alla politica economica. La verità è che nessuno è in grado di offrire ricette convincenti. Romney si è vantato di essere stato un abile regista di intese bipartisan, quando era governatore del Massachusetts e doveva amministrare con la maggioranza democratica nell’assemblea legislativa locale. Romney ha anche operato una nettissima “sterzata” al centro, che oltre a spiazzare il presidente nel primo dibattito può preludere a quello che sarebbe il suo atteggiamento una volta alla Casa Bianca: un conservatore moderato e aperto al dialogo? Ma intanto bisogna arrivarci, al giorno dell’insediamento. Fino a gennaio sarà Obama in carica. E poi è tutt’altro che scontato che Romney sia capace davvero di costruire larghe intese. Lo stesso si può dire per Obama. Certo, gli ottimisti sottolineano che un presidente al secondo mandato ha più libertà di manovra perché non è più condizionato dalla rielezione. Gli iper-ottimisti arrivano a immaginare una mini-luna di miele tra un Obama 2 e il Congresso, con i repubblicani indotti a più miti consigli da una batosta elettorale. Ma anche questo sembra wishful thinking, più fondato sulla speranza che sul calcolo di probabilità. Una delle tendenze che sembrano destinate a rafforzarsi anche in questa elezione del 6 novembre, chiunque vinca nella corsa alla Casa Bianca, è un’ulteriore polarizzazione dei due partiti. I moderati centristi sono una pattuglia che si assottiglia da un’elezione all’altra, soprattutto fra i repubblicani ma in una certa misura anche fra i democratici. La percezione dei rischi del fiscal cliff provocherà un sussulto, in un sistema politico che sembra bloccato? Per ora quella percezione è attutita da una “droga”: la politica di quantitative easingdella Federal Reserve con i suoi acquisti di titoli al ritmo di 80 miliardi di dollari al mese ha narcotizzato i mercati. Ma anche le droghe danno assuefazione, e talvolta hanno un’efficacia decrescente.