Antonio Gnoli, la Repubblica 15/10/2012, 15 ottobre 2012
PAOLO GIORDANO
[Il mio mondo non è finito con quei "numeri primi"] –
Ci sono voluti cinque anni perché Paolo Giordano approdasse al suo secondo romanzo. Un tempo lunghissimo per una società abituata a viaggiare veloce e leggera. Indifferente alla profondità, e poco incline a perdonare i passi falsi.
Giordano sta per compiere trent’anni e quell’esordio folgorante e di successo rappresentato da
La solitudine dei numeri primi
misura insieme la distanza e la continuità con il nuovo romanzo in uscita da Mondadori: Il corpo umano, una storia corale di un gruppo di soldati italiani in Afghanistan che lo scrittore restituisce con grande efficacia narrativa. Non era facile calarsi in quel mondo militare, nella povertà dei suoi codici, e nella ricchezza della sua emotività basica. Poteva essere un fallimento. In realtà, tutto quello che finiremo col leggere ci coinvolge e ci riguarda come un rimosso che lo scrittore ha saputo riportare alla luce.
Sarà fatale, immagino, il confronto, fra i due titoli. Evocativo e accattivante quello del suo primo romanzo, un po’ piatto, anodino, generico il secondo. Nessuno si è opposto?
«No ed è un titolo che, diversamente dal primo, ho scelto io. Vuole non suggerire troppo, non indirizzare l’emotività, come accadeva nell’altro, ma proporre un’atmosfera più asciutta e sobria».
Viene da pensare a un romanzo post-berlusconiano.
«Non mi dispiacerebbe, ma tutta la gestazione risale agli anni passati».
Anni che lei ha vissuto come?
«Con disagio. Anni in cui mi sono sentito diviso, in cui mi è sembrato di essere strappato con forza alla mia giovinezza. E poi, ho fatto pace con questo scenario mentale arrivando, anche se in modo tumultuoso, nel posto dove dovevo stare».
Sembra quasi che lei stia raccontando il percorso compiuto dal protagonista del romanzo: il tenente-medico Alessandro Egitto.
«In un certo senso è così. Per lui ho ricreato la stessa dinamica, impostata sulla necessità di uscire da un certo mondo di affetti familiari, che a volte può essere una briglia molto forte che limita le scelte».
La famiglia che qui lei descrive è opprimente, vischiosa, a tratti patologica. È come se non riesca a staccarsi da quel grumo di problemi, complicazioni, che essa produce.
«Raccontarla nuovamente per me è stato un modo di conservare una continuità con il primo romanzo. Ma anche segnarne la distanza. A volte, nella famiglia si generano conflitti più opprimenti e oscuri che non quelli che si combattono in una guerra vera. Dove tutto è più chiaro, più elementare. E di questo mi sono reso conto personalmente visitando una base militare in Afghanistan».
Che cosa ha provato in quella circostanza?
«Ho percepito un posto di privazioni vere, ma dove tutti erano estremamente più umani e spontanei. Parlare con quei soldati mi ha fatto pensare a quanto fossero più nudi rispetto al contesto civile e sociale dal quale provenivano».
Niente per loro sarà più come prima.
«Quasi tutta la narrativa di guerra ha raccontato la profonda esperienza trasformativa. E credo che davvero assistere o partecipare all’esercizio della violenza, vedere gli effetti di un conflitto a fuoco o di un agguato da cui si può uscire a brandelli, sia qualcosa che va oltre l’immaginazione. Sì, dopo un’esperienza del genere, niente è più come prima».
Come pensa reagiranno quei soldati che leggeranno il suo romanzo? Come accoglierebbero quel mondo che lei ricrea tra depressione e virilismo?
«Da scrittore non potrei accettare nessun tipo di compromesso che limiti la verità del testo stesso. Oltretutto, se analizzasse qualunque luogo di lavoro vedrebbe riprodursi le stesse dinamiche di virilismo e depressione che ho rintracciato nella vita militare. È uno degli aspetti che mi affascina degli ambienti chiusi: il loro produrre nevrosi, sopraffazione, risentimento, in una nudità che rende quei corpi decifrabili ».
La guerra che lei racconta non tiene in nessun conto del punto di vista del nemico. Il quale è qui presente solo come artefice di un agguato che co-
sterà la vita ad alcuni nostri soldati.
«Non volevo raccontare una guerra “metafisica” che divide il bene e il male, ma la guerra vista dagli italiani. Sarebbe stato facile
appoggiarsi a narrazioni esterne, a un immaginario di seconda mano. Ho preferito basarmi su ciò che ho vissuto personalmente nelle due volte che sono stato in Afghanistan».
Ed è stato un tempo sufficiente?
«Non lo so. So però che quel luogo ha avuto per me una forza simbolica travolgente. Con la quale ho convissuto a lungo mentre scrivevo. La stessa, mi verrebbe da aggiungere, che ho percepito ogni volta che ho raccontato il conflitto familiare ».
Ogni scrittore porta con sé delle ossessioni. Le sue gravitano molto sull’universo familiare, anch’esso un ambiente chiuso, probabilmente dotato di un’attrattiva speciale per lei.
«Dalla quale ho cercato di emanciparmi».
Riuscendovi?
«In Il corpo umano c’è come un’aria di congedo da questa ossessione. Un aver chiuso i conti, anche se di veri conti aperti non ne avevo, con un passato della mia vita».
Proviene, come si diceva un tempo, da una famiglia borghese. Fatta di agi, sicurezze, affetti. Come è stata la sua infanzia?
«Come quella di tantissimi altri, niente di speciale».
Di speciale è che lei ci scrive sopra due libri. Dove, se leggo bene, si intuisce la forte presenza di dolore e solitudine. Situazioni, capisco, non facilmente comunicabili. E tuttavia percepibili.
«Il punto è che se devo parlare di me attraverso il romanzo devo trovare il giusto grado di trasfigurazione. Non mi sentirei a mio agio se dovessi farlo direttamente
».
Perché?
«Ho passato tre anni in cui le persone cercavano di scoprire quale fosse il mio trauma da collegare a
La solitudine dei numeri primi.
Semplicemente non c’era. Mentre è vero che ho avuto un contatto, forse precoce, con il dolore, quello intimo, del quale non saprei trovare la cause
esteriori e che penso abbia a che fare con il fatto che scrivo e che perciò resterà sempre il motore della mia forza».
Sono trascorsi quasi cinque anni dal primo romanzo. Come ha vissuto il successo clamoroso, la pressione, le richieste?
«Qualunque difficoltà uno denunci successivamente, sembra quasi ingratitudine verso ciò che ti è accaduto. Quindi rifarei tutto quello che ho fatto. Però la sensazione è stata di uscirne un po’ logorato».
Le è sorto anche il dubbio di non riuscire a scrivere un nuovo romanzo all’altezza del precedente?
«Penso che questo valga ogni volta che uno si accinga a scrivere un libro. Ogni volta torna il dubbio se sei uno scrittore, se puoi fare questo mestiere, se c’è qualcosa di sensato da dire. Dopo La solitudine dei numeri primipensavo che il mondo finisse con me, con i miei ricordi, con ciò che potevo trasfigurare direttamente dalla mia storia personale. E invece con Il corpo umano ho capito che le possibilità di trasfigurazione della mia storia sono infinite».
È così necessario proiettare una parte di sé in ciò che si scrive?
«Per me sì. Non so se esistano scrittori che non parlano di sé anche quando parlano di altro. Personalmente ritengo che sia inevitabile».
Ha pensato in questi anni di lavorare a un romanzo diverso da quello che poi ha realizzato?
«Per un po’ di tempo sono stato anch’io molto preso dalla crisi economica e avevo cominciato a interessarmene. Ma c’era qualcosa che mi sfuggiva e sentivo di non riuscire a portare quell’argomento su una dimensione corporale, che era la cosa che mi interessava e che ho trovato in Afghanistan».
Ma perché questa attenzione così dichiarata al corpo?
«Perché mentre nel primo romanzo era una barriera che divideva il dentro dal fuori, qui il corpo è un tramite fra il dentro e il fuori. È cambiato il modo di vivere la corporeità».
Più coinvolgente?
«Meno fredda, meno mentale. Una cosa che mi ha colpito e che torna nel libro è che quando ero in mezzo ai soldati notavo che l’abitudinarietà dei ragazzi di vivere in un certo modo alla fine coinvolgeva anche i loro corpi ». In un senso sessuale, intende?
«Non propriamente. Direi piuttosto che riguarda la confidenza che si avvertiva tra di loro, l’assenza di pudore. Una delle scene madri del romanzo è quando Angelo Torsu scende da uno dei mezzi di trasporto e si mette a defecare davanti a tutti. Si tratta di una situazione alla quale ho assistito mentre ero lì. In quel momento mi aveva colpito quanto quell’immagine fosse “naturale” anche per me. E quanto, invece, sarebbe stata aberrante se io vi avessi assistito in tutt’altro contesto».
Tutto molto basico.
«Ho cercato di raccontare una generazione di venti-trentenni che genera da sé una forza primitiva, elementare, scabra che noi abbiamo disimparato a conoscere».
C’è una sottotraccia di disperazione in quella generazione. Sono anche così i nostri giovani venti-trentenni?
«Sinceramente non mi sono chiesto se la mia fosse una generazione più disperata delle altre. Così, d’istinto, mi verrebbe da dire no. Ma trovo che sia una generazione molto difficile da raccontare, perché la quantità di elementi di realtà che vi si affollano rende tutto molto più complicato. Non puoi nemmeno abbandonarti alla retorica».
Nel suo romanzo non ce ne è traccia. Come pure rifugge dagli eroismi. Quel mondo di soldati che racconta non compie gesta eroiche. Anche quando di fatto accadono c’è la volontà di abbassare il tono.
«Mi verrebbe da dire che il loro è un eroismo fallimentare, di chi non sa esattamente perché sta combattendo una guerra. E sulla quale si finiscono con l’imprimere degli stereotipi. Ma poi penso che loro sono lì anche per tutti noi. E mi interessava vedere l’eroismo quotidiano, fatto della paura di chi comunque si sta mettendo in gioco. Un eroismo non gridato, spogliato di grandi gesti, sobrio. Probabilmente di un paese con una storia diversa».