Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  ottobre 15 Lunedì calendario

STORIA DI GUZZANTI TRA BURLE E SCOOP

Dalla quarta di copertina Paolo Guzzanti si affaccia lanciando sui suoi lettori uno sguardo molto, anzi troppo accigliato. E non è per parlare della foto minacciosa dell’autore invece che della sua autobiografia
Senza più sognare il padre
(Aliberti, 445 pagine, 18 euro), che oltretutto sull’altro lato reca il volto di un bel bambino dai capelli rossi.
E davvero viene da chiedersi il perché di quell’espressione così arcigna, tanto più che Guzzanti ha scritto un libro molto bello, come bella e intensa è la sua straordinaria esistenza, piena com’è di amori, passioni, viaggi, incontri, successi, allegria. Tutto quanto insomma fa di lui un grande personaggio del giornalismo, ma anche un uomo così vivo e curioso nella sua complessità da farsi egli stesso – privilegio rarissimo – risorsa narrativa. Un brillantissimo affabulatore nelle prime pagine perfino irritante con quel suo girare e rigirare attorno alle ferite famigliari e al disagio di crescere con i capelli rossi. E chi ha l’alopecia, allora? E chi i genitori non li ha mai visti? viene da chiedersi sentendo aria di “chiagni e fotti”.
Ma poi è come se quel formidabile raccontatore si accorgesse di quel fastidio e dopo aver chiuso a chiave intimismi, vittimismi, scrupoli e paturnie, prendesse a braccetto il lettore invitandolo a seguirlo mentre si rivela un visionario esploratore di luoghi e di umanità; e allora ti pare di vedere Guzzanti mentre segue gli odori delle città, vede le vocali nell’aria, beve allo sfinimento, si esalta, piange, si compiange, ama e si fa truffare (due volte), costruisce acquari, perquisisce lo studio della sua psicanalista, litiga e fa pace con questo e con quello, si unisce ai cori, si sente morire, salva giovani rumeni, si traveste a New York, sta per essere fucilato nella Bekaa. Sempre lui, ma senza auto-stranguglioni né voglie di essere quello che non è.
Una volta – e mai come in questo caso ci si sente felicemente confusi dal ritmo fanfarone della verità – Guzzanti arriva a raccontare che su una collina della Nuova Scozia, in Canada, fu colpito con violenza da un pesce cadutogli in testa: «E vacillai». Nel gran teatro della vita, spesso e volentieri egli si sofferma sull’“irresponsabile vocazione” di “interpretare i contemporanei”, con il che i celebri scherzi dell’impenitente imitatore (con la voce di Pertini convocò un sacco di gente al Quirinale) trovano qui la più infiorettata narrazione. Così come gli scoop che fecero epoca, tipo «A’ Frà, che te serve?».
Ma le pagine più belle sono sui sotterranei e i cortili di Roma, «città archeologica squinternata e un po’ troppo eterna», sul giovane Andreotti, su una mangiata omerica in Calabria sul modo di parlare di Craxi, pause e cerchi disegnati nell’aria. Guzzanti procede per lampi, paradossi, rovesciamenti, mimetismi, virtuosismi, funambolismi. Alla fine ci si perde come in un antico cartone animato o in un evolutissimo videogame fra scacchi, cadaveri, carriarmati, metrica, Begin, Tognazzi, Mancini, Wittgenstein, garibaldini, vecchie maestre, figli attori, mitologia redazionali di Repubblica, picconate cossighiane, trenini elettrici e piccoli riti un po’ pazzoidi. Costantemente Guzzanti scrive: io la vedo così, in tal modo rivendicando a sé la gloria dell’asimmetria e il piacere dell’estro che a volte anche disperatamente cerca di farsi arte narrativa, per non dire letteratura. Tra parentesi: quanto tutto ciò si sia rivelato catastrofico in politica è qui inutile dire, e infatti nel libro non c’è.
Ciò detto, e anche omesso, a pochissimi scrittori è dato di tornare a scrivere la propria vita per la seconda volta senza copiare né contraddirsi. Per cui la vasta e divertente autobiografia si fonde con lo smilzo e poetico volume I giorni contati (Baldini&Castoldi, 1995) per la delizia dei “guzzantologi”, categoria invero messa costantemente a dura prova da scorribande, delusioni, intemerate, scarti, infatuazioni, ciclici piagnistei e tenerezze che fanno cucù. Prendere o lasciare, insomma – là dove prendersi sul serio resta per tutti il rischio più ingrato.