Gianni Mura, la Repubblica 15/10/2012, 15 ottobre 2012
C’ERA UNA VOLTA IL SORRISO DI BEPPE VIOLA
Sono già trent’anni che è morto Beppe Viola. Forse amato più da morto che da vivo, e non parlo di famiglia, amici (ne aveva tanti), ma di attenzione, rispetto, riconoscimenti ufficiali. Era consapevole del distacco, per non dire emarginazione, derivanti dal suo modo “altro” di essere giornalista sportivo. “Tengo duro per migliorare il mio record mondiale di mancata carriera”, diceva. E sorrideva. Sorrideva spesso, el gh’aveva du oeucc de bun, come quello che portava i scarp del tènis, le palpebre un po’ pesanti
anche se non aveva fatto tardi. Sulla copertina di “Vite vere compresa la mia” il disegno di Altan è come una fotografia. Il libro è del 1981. “Quelli che” è del 1975. Forse la ripetizione sistematica di “quelli che” è partita da una poesia di Prévert, ma tutto il resto è Milano, è Italia, è gioielleria di precisione, è satira, è umanità. Ringrazio Umberto Eco per la descrizione di “quella” Milano uscita sabato su Repubblica. Perfetta. In “quella” Milano è nato Beppe Viola il 26 ottobre 1939, ci è cresciuto ed è morto il 17 ottobre 1982, mentre stava montando in Rai il filmato di Inter-Napoli 2-2. Oriali, rigore di Altobelli, poi negli ultimi 4’ Criscimanni e Marino. Ictus. Si definiva collezionista di mal di testa, forse si era trascurato. A mezzanotte era già clinicamente morto (“è andato”, disse il dottor Jannacci ) ma non si poteva dire per via del trapianto degli organi. Gli occhi andarono a una cieca con sei figli, il resto non so. So che ai funerali c’era un mare di gente, anche facce famose dello sport e dello spettacolo, ma soprattutto facce di gente qualunque, molti del triangolo in cui aveva piantato le tende dalla nascita (piazza Adigrat, via Sismondi, via Lomellina), ma tanti fuori, alcuni ai margini (clanda, zanza, nel gergo della strada). Lettera significava menagramo, ricotta affare, bevuto arrestato. Sacco era mille lire, scudo cinquemila, deca diecimila (oggi, decaffeinato), marengo ventimila, gamba centomila, testa un milione.
Se oggi la gente va ai funerali per vedere se ci sono quelli che poi non ci sono, allora ci andava per dire grazie, ci hai fatto compagnia e ci dispiace che sei morto. Lo diceva in silenzio. Certo, Beppe era “uno della tv”, ma guai a chiamarlo dottore. Era anche un instancabile osservatore, frequentatore di bar, osterie, pasticcerie, salumerie. Sempre cose pesanti. “Adesso il gozzo ride ma domani il fegato telefona”. Come Di Stefano, s’era laureato all’universidad de la calle, lui che a scuola andava malvolentieri (meglio il biliardo di largo Augusto) e che quando lesse sul tabellone
“Viola Giuseppe respinto”
commentò: “Ma se nemmeno mi conoscono. Disperso, dovevano
scrivere”.
Alla Rai entrò nel ’62, ebbe la fortuna di inserirsi dallo studio nella finale di Wembley tra Benfica e Milan (lui milanista) perché a Carosio dopo l’1-1 era saltato l’audio e fu Beppe a commentare (molto sobriamente) il 2-1 di Altafini. All’esame per passare professionista Enzo Biagi gli chiese: “Secondo lei, in questa Dc Fanfani è di destra o di sinistra?”. “Dipende dai giorni”, rispose. Promosso. La Rai lo assunse con regolare contratto nel ’66 e allora sposò Franca, la bambina del piano di sopra in piazza Adigrat. “Beppe al primo, io al secondo, ci siamo conosciuti ai tempi dell’asilo. Lì abitava soprattutto gente che aveva a che fare con Linate. Il padre di Janpolare.
era pilota, il padre di Beppe marconista”. Nonno Viola era di Contursi Terme, nel Salernitano. Le radici dei milanesissimi Viola, Jannacci, Abatantuono, Teocoli, Gaber, Strehler, erano un po’ lontane dai Navigli, allora a Milano ci s’integrava facilmente, non era una città frenetica e spenta, specializzata in buttadentro e buttafuori. Nel meticciato culturale il talento emergeva, quando c’era. Questo spiega perché Beppe sia stato giornalista di carta stampata, radiocronista, telecronista, autore di testi per cabaret e canzoni, sceneggiatore, partendo da un innato senso dell’umorismo e da una cultura classica (mai laureato, ma quanti libri in casa sua) e insieme pol’epica, Posso aggiungere: la persona più generosa che abbia mai incontrato, quasi sempre con problemi economici ma sempre disposto a dare le ultime mille lire a uno che stava peggio. Molti dicono che è arrivato molto presto, troppo per essere capito subito. Invece no, è arrivato quando doveva arrivare, in quegli anni, e se n’è andato troppo presto. Restano molte cose a ricordarlo, il filmato dell’intervista a Rivera sul tram numero 15 è una summa. Non solo per l’idea, dove c’è tutto Beppe, ma perché quel tram non era affittato ad hoc. C’erano passeggeri, ma non invadevano la scena. Era un’altra Milano, forse un’altra Italia, sicuramente un altro giornalismo televisivo. Equivaleva a un triplo carpiato, ma Beppe ha dimostrato che si può fare a meno delnacci dei luoghi comuni, del divismo. Al grande calciatore dedicava la stessa attenzione che al barbiere, o a quello che aveva svuotato un tir (tremila carriole) e gli chiedeva: interessa l’articolo? In Rai ha avuto amici e nemici. Il 3 dicembre ’79 scrive al direttore: “Ho quarant’anni, quattro figlie e la sensazione di essere preso per il culo”. Gli era stata tagliata la mazzetta dei giornali. Beppe era lo sport senza piedistallo, ma anche la spalla di due guru (Gualtiero Zanetti e Gianni Brera) non particolarmente portati per la tv. Beppe toccava i tasti giusti, dava i tempi. Ma era giudicato poco telegenico: la cravatta sembrava lo strangolasse, sudava per tre, non era abbronzato.
Anche suo nonno aveva la passione del gioco: carte. Il padre, cavalli. Beppe tutt’e due. Dei cavalli sbagliati (“le bestie”) non ha mancato uno. Era molto bravo a scopa d’assi, quasi come Pantera Danova, nelle partite con Pizzul e Facchetti. Sembrava svagato, ma sul lavoro non sgarrava. Sembrava pigro e ha sgobbato come un mulo tutta la sua corta vita. Nella redazione di “Magazine” c’era al muro il tariffario: a chi avesse usato “sfrecciano” 5mila lire di multa, “ginocchio in disordine”10mila, “il centrocampista va a battere” 20mila. Nel caso, tutto veniva reinvestito alla salumeria, oltre l’angolo di via Arbe. In casa non ha mai parlato di sport, né portato le figlie in uno stadio. Sarebbe molto orgoglioso di loro: Marina vive negli Usa, scrive bene, presto Feltrinelli dovrebbe pubblicarle un libro. Renata si occupa di teatro. Anna, dopo rom e tossici, di carcerati a Bollate. Serena lavora alla Cineteca italiana di Bologna.
Su Rai 3 il 19 novembre dopo il programma di Fazio andrà in onda il documentario “Quelli che... Beppe Viola”. Sarebbe stato più logico trasmetterlo in questi giorni, ma forse è eccessivo chiedere logica ai carrozzoni. Da vivo lo vedevo come un incrocio tra Damon Runyon e un Bianciardi con meno vetriolo. Questa sera lo ricorderò come faceva lui con gli amici, con una bottiglia di rosso, e riascoltando “Vincenzina e la fabbrica” e un’altra canzone meno nota, “Io e te”. Parla di due ragazzi e dell’avvenire che è un buco nero in fondo al tram. Come oggi, anzi oggi è più nero.