Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  ottobre 15 Lunedì calendario

IN FALLIMENTO MILLE AZIENDE AL MESE

Quello appena concluso è stato il terzo trimestre peggiore degli ultimi anni: le aziende che hanno portato i libri in tribunale sono state 2.397, il 9% in più rispetto allo stesso periodo del 2011 e il 39% in più del luglio-settembre 2009, annus horribilis del post Lehman Brothers.
È una corsa che non accenna ad arrestarsi quella dei fallimenti in Italia. I primi numeri disponibili sul terzo trimestre (caratterizzato peraltro dal mese di agosto, che tradizionalmente comprime la dinamica) sono contenuti nella periodica analisi realizzata da Cribis D&B, la società del gruppo Crif specializzata nella business information. Ne emerge un quadro in peggioramento, con l’istantanea di una crisi che continua a uccidere aziende. Mettendo insieme i dati dei primi nove mesi dell’anno, infatti, ogni ora ci sono un’impresa che alza bandiera bianca e un’altra vicina al crac. In tutto quasi mille aziende al mese fra gennaio e settembre hanno portato i libri in tribunale: 8.718 società, l’1,3% in più rispetto al dato dei primi nove mesi del 2011. Da inizio 2009 le aziende che hanno capitolato sono state 41.556.
«Il numero dei fallimenti rilevato anche nel terzo trimestre dell’anno in corso – commenta Marco Preti, amministratore delegato di Cribis D&B – rimane molto al di sopra dei livelli pre-crisi. Questo dato purtroppo non sorprende e, anzi, trova un riscontro anche nei comportamenti di pagamento adottati dalle imprese italiane nei confronti dei propri fornitori, ancora in sofferenza». Su tutto pende questa congiuntura economica negativa – con previsioni peraltro riviste al ribasso da più parti – che rende gli insoluti insostenibili: «Persino quelli non particolarmente gravi – aggiunge Preti – rischiano di mettere seriamente in difficoltà anche imprese solide, soprattutto quando questi insoluti provengono dalla clientela storica alla quale, magari, si sono concessi tempi lunghi di pagamento e fidi commerciali consistenti».
I dati quindi non possono che destare preoccupazione anche perché in oltre 3 casi su quattro a fallire in Italia sono state soprattutto società di capitali, le più strutturate. Solo una minoranza, invece, sono società di persone (1.075 casi, pari al 12%) e ditte individuali (969 casi, pari al’11%). «Le imprese più piccole – spiega Marco Giorgino, docente di Finanza al Mip Politecnico di Milano – sono le più esposte alle intemperie della crisi, ma anche quelle che potenzialmente potrebbero meglio reagire con rapidità». A questo va aggiunto che «i nodi stanno venendo al pettine per quelle imprese che non hanno innovato e che non hanno rinforzato la loro struttura patrimoniale. Oggi, viste le difficoltà attraversate anche dagli istituti di credito, il debito bancario non ha e non può più avere lo stesso peso di un tempo».
Quanto ai settori, edilizia e commercio (si veda l’altro articolo in pagina) sono i più colpiti mentre sul fronte territoriale è stata la Lombardia a pagare il prezzo più alto: 1.925 imprese hanno dichiarato fallimento da inizio anno; 541 solo nel terzo trimestre, pari al 23% circa dei casi rilevati in Italia. Seguono Lazio (897), Veneto (743), Campania e Piemonte (in entrambe 688 casi). Analizzando però il trend da un anno all’altro, il peggioramento è stato particolarmente marcato in Valle D’Aosta (+55%, ma con un numero esiguo di casi, passati da 9 a 14); Basilicata (+30%, anche qui con sole 9 aziende in più) e soprattutto Umbria, in cui le imprese che hanno dichiarato fallimento sono aumentate del 27,9%, con una salita consistente anche nei numeri: da 136 a 174. «Per una realtà come la nostra – commenta Umbro Bernardini, presidente di Confindustria Umbria – questi numeri rappresentano un’enormità. Sono anni purtroppo che mi tocca il ruolo della Cassandra, ma non posso far altro che continuare a lanciare l’allarme sul fatto che come regione stiamo rischiando uno scivolamento che ci sta avvicinando progressivamente ai territori meno caratterizzati da attività d’impresa. A partire dalle infrastrutture occorre ricreare condizioni migliori. Quanto a collegamenti stradali e autostradali, infatti, la nostra situazione è praticamente uguale a quella di trent’anni fa».