Valerio Castronovo, Il Sole 24 Ore 15/10/2012, 15 ottobre 2012
POLITICA INDUSTRIALE A FARI SPENTI - C’è
voluta una situazione d’emergenza come quella che stanno continuando ad affrontare tantissime imprese, perché riemergesse l’esigenza di un’efficace politica industriale, scomparsa dall’agenda dei governi un trentennio fa. All’inizio degli anni Ottanta l’epilogo di una fase pressoché ininterrotta di stagflazione e di accesa conflittualità sindacale aveva infatti indotto la classe politica a non preoccuparsi più di tanto che le principali imprese private e pubbliche erano uscite con le ossa rotte dal tunnel di quella lunga crisi.
E dire che, alla fine del 1978, secondo un’indagine di Mediobanca, esse avevano accumulato qualcosa come 816 lire in media di debiti ogni mille di fatturato. Una cifra astronomica che ben difficilmente avrebbero potuto riassorbire per intero: anche perché risultava che, per produrre merci del valore di 100 lire, avevano speso (fra costi del personale e altre voci) qualcosa come 92 lire, trovandosi con quel che restava a dover pagare gli interessi bancari, le tasse e le quote degli ammortamenti.
Ma s’era diffusa la convinzione che l’Italia fosse avvantaggiata, rispetto ai suoi partner della Comunità europea, dal fatto di contare su un grosso esercito di riserva, composto da una miriade di piccole imprese operose e dinamiche, spuntate dai meandri dell’"economia sommersa" o fiorite in seguito al decentramento di alcune lavorazioni attuate dai complessi di maggiori dimensioni per acquisire più agibilità e margini di redditività.
Inoltre il "sorpasso" avvenuto nei riguardi della Gran Bretagna (in termini di Pil in assoluto e pro capite) aveva suscitato un clima euforico; e poco importava che il sistema produttivo inglese fosse già afflitto da parecchi malanni che ne stavano erodendo le fibre. In seguito alla ventata di orgoglio nazionale per la conquista del quinto posto nel firmamento industriale mondiale, gran parte del ceto politico e dell’opinione pubblica si era illusa che in futuro avremmo potuto vivere di rendita e sugli allori.
Di fatto, dopo che tra gli anni Sessanta e Settanta la politica industriale era stata sostituita da una politica di programmazione per settori, non s’erano conseguiti, con questo nuovo genere di procedimento, risultati tangibili di particolare rilievo. Tutt’altro. Dopo che s’erano gettate al vento in passato le opportunità di sviluppo acquisite nell’elettronica, nella chimica fine e nelle telecomunicazioni, s’erano andate logorando le potenzialità esistenti nell’impiantistica e nella meccanica pesante; e, in seguito all’incidente nella centrale sovietica di Chernobyl, s’era anche dato addio nel 1987 all’energia nucleare.
In pratica avevamo così perso terreno in altrettanti settori strategici ad alto contenuto tecnologico e innovativo. Inoltre il crescente drenaggio da parte dello Stato, per la copertura del deficit pubblico, del risparmio privato e della liquidità bancaria aveva concorso a deprimere gli investimenti nel campo della ricerca e nelle infrastrutture.
Ma, dato che una serie di "svalutazioni competitive" della lira avevano contribuito al rilancio del nostro export e che le stampelle dello Stato continuavano a sorreggere varie imprese pubbliche altrimenti fiaccate anche da un fardello di "oneri impropri", l’industria seguitava in un modo o nell’altro a mantenere la rotta, anche se doveva vedersela con tante diseconomie esterne. Non c’era infatti attività di servizio che non denunciasse insufficienze o disfunzioni più o meno gravi (dalle ferrovie agli scali portuali, dal traffico aereo a quello marittimo, dalle poste ai telefoni, alla rete di distribuzione commerciale).
Trascorsero così fra il 1986 e il ’91 gli anni cosiddetti delle "cicale", ma anche delle "cavallette", per via di una sequela di provvedimenti assistenziali a pioggia, molti dei quali dovuti a fini politici strumentali, per l’acquisizione e la gestione (attraverso il voto di scambio) del consenso sociale. Finché nel 1992 non fu più possibile scaricare sul debito e sul cambio le nostre numerose anomalie se volevamo venire ammessi nell’Unione economica e monetaria europea. Intanto, mentre la spesa corrente era cresciuta in modo abnorme e così pure il debito pubblico, i principali gruppi dell’industria di base e manifatturiera s’erano indeboliti.
È vero che neppure l’Unione europea s’era impegnata nel frattempo a concertare in sede comunitaria un’adeguata strategia che incentivasse la crescita della produttività in campo industriale. Sta di fatto che il nostro Paese s’è trovato a pagare, innanzitutto, i costi dell’imprevidenza e della miopia dei propri governi sul fronte della politica industriale: tanto più che i prodromi di una crisi strutturale della nostra "economia reale" erano già evidenti fin da allora.