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 2012  ottobre 14 Domenica calendario

LA NOTTE IN CUI PERDEMMO DIECI GIORNI

All’indomani del 4 ottobre 1582 la Roma di Gregorio XIII si svegliò il 15 ottobre, in quella notte erano spariti dieci giorni. Fu questo uno degli effetti della riforma del calendario indetta da papa Boncompagni. Il gesuita Cristoforo Clavio (Bamberg 1538-Roma 1612) era stato uno degli artefici e maggiori difensori della riforma gregoriana. L’innovazione del calendario incontrava un’Europa dove "religione" non poteva che dirsi al plurale. La novità si calava nel cuore del dibattito tra teologia e scienza e chiamava in causa la stessa autorità papale. Quella era l’Europa di Clavio.
Ammesso nella Compagnia di Gesù (1555) dallo stesso Ignazio di Loyola, più tardi fu inviato a Coimbra dove iniziò da autodidatta lo studio della matematica. Rientrato a Roma nel 1561, Clavio fu incaricato di insegnare presso il Collegio Romano la mathesis. Questa disciplina, comprendente lo studio dell’astronomia, la teoria musicale, la statica e l’ottica, verrà inserita, non senza resistenze e discussioni, nella versione definitiva della Ratio Studiorum del 1599.
L’occasione dell’anniversario della morte di Clavio sarebbe propizia per realizzare una commemorazione ma lo storico dovrebbe essere prevenuto e semplicemente non accettare l’invito. La commemorazione, infatti, ha qualcosa d’imposto. Assomiglia a quelle cattive guide turistiche che sferzano il loro esausto gregge di visitatori con i loro: «Guardate qui», «Fermatevi qua», «Andiamo lì». Spesso è una memoria dettata e obbligata, che si oppone all’andirivieni della memoria e che rende l’avvenimento o il personaggio, di volta in volta, meno reale e storico, per trasformarlo in qualcosa d’irreale e mitico. Come ricordava Pierre Nora: «La dinamica stessa della commemorazione è venuta a rovesciarsi, il modello memoriale ha prevalso su quello storico e, con esso, un tutt’altro uso del passato, imprevedibile e capriccioso» (Pierre Nora, Les lieux de mémoire, III, pagg. 978). La sfida è fare della ricorrenza un’occasione affinché l’operazione storiografica continui a tracciare i sentieri verso la verità attraverso una scrittura, che scrosti ogni memoria imposta o manipolata, ricollocando l’individuo all’interno di una determinata società. La società del XVII secolo deve essere il punto di riferimento e non una coscienza individuale, che è un archivio che sempre rimane segreto. Clavio e Galileo, Inquisizione e "scienza" osservano attraverso lo stesso "cannocchiale", si trovano all’interno di una società che osserva attraverso comunicazioni; soltanto nella società e dalla società la coscienza vede ciò che può comunicare, osserva attraverso comunicazioni e secondo la relazione stabilita tra il regime di visibilità e il regime di comunicabilità.
Analizzando il materiale documentario relativo a Clavio emergono chiaramente due aspetti che contribuirono a rendere centrale questa figura: la divulgazione dei testi classici della matematica greca, come gli Elementi di Euclide, e il processo di "manualizzazione". I gesuiti vissero pienamente nella modernità del secolo XVII, età di confine in cui la leggibilità della prosa del mondo, a partire dal secolo delle Riforme, si intorbidisce, la cultura retorica comincia a incrinarsi e aumenta il livello di incertezza. Cresce la distinzione tra "scienza" e "retorica" e poco a poco la prima cercherà di sostituirsi alla seconda nella piramide della sfera della conoscenza. Lo stesso Galileo affermerà l’inutilità dell’arte retorica nell’ambito delle scienze naturali. Una "nuova lingua" vorrà ristabilire la cifra del mondo. «La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi agli occhi (io dico l’universo), ma non si può intendere, se prima non s’impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro labirinto». In questa risposta di Galilei al gesuita Orazio Grassi, riguardo la polemica sorta intorno alle comete, vi è la formulazione della "nuova lingua" della quale si servirono anche i gesuiti, mantenendo una relazione paradossale con il nuovo. La ricezione della novità che loro stessi aiutarono a produrre fu possibile nella misura in cui questa poteva essere addomesticata. Non potendo imporsi il nuovo, ancora, come un valore in sé, era necessario legittimarlo attraverso le cose già conosciute.
Clavio difende la supremazia della matematica perché vede nei suoi metodi rigorosi e chiari la possibilità di produrre una conoscenza certa, sempre riconoscibile lungo i secoli. Lo sforzo di introdurre l’insegnamento delle matematiche nella Ratio studiorum s’inscrive nella volontà di universalizzazione della conoscenza e di contenimento davanti alla dissoluzione di un determinato concetto di verità, prevalentemente morale.
L’uso delle scienze da parte dei gesuiti non poteva prescindere di stabilire una verità fondamentalmente teologica, dove la contingenza era vista come errore e la dissidenza come eresia. Clavio, in una lettera all’astronomo Giovanni Moleto, è disposto a fondare la riforma del calendario sui moti veri degli astri, nondimeno si vede obbligato a assecondare la tradizione ecclesiastica: «È mia opinione che allo scopo di ristabilire e di tenere conto dell’astronomia, sarebbe importante adottare il vero moto ma i gentiluomini (della Congregazione) non comprendono questa necessità per diverse ragioni». Questo modo di procedere assimilerebbe i gesuiti a essere "attrattori evolutivi" più che erigerli a rivoluzionari ante litteram, promotori di modernità più che moderni.
La Gnomica, il Commento alla Sfera di Giovanni Sacrobosco e l’Astrolabio furono i libri di Clavio che il suo discepolo Matteo Ricci portò con sé in Cina, istruendo i suoi compagni affinché «travagliassero con due mani, la destra nelle cose di Dio, e la sinistra in queste cose, perché non si può far di manco, e quel che insino adesso s’ha fatto, tutto fu di questo modo».
Fondare la nostra modernità in un passato nel "modo" tratteggiato da Matteo Ricci, che non prevedeva contingenze, è un paradosso. Ed è paradossale che si chieda alla storia di costruire quelle fondamenta e allo stesso tempo di trattare concetti come "scienza", "fede" o "verità" come realtà fuori dalla storia. D’altronde, nello stesso passato potremmo trovare parole che ci spingano a stare nei tempi nostri e ci aiutino a distinguere imitatio da copia: «Voglio una guida che mi preceda, non che mi tenga legata a sé, e che mi lasci libero l’uso degli occhi e dell’ingegno, non m’impedisca di porre piede dove mi piaccia e ad alcune cose passar oltre, altre inaccessibili tentare...» (Francesco Petrarca, Familiares, XXII).