Massimo Bucciantini, Il Sole 24 Ore 14/10/2012, 14 ottobre 2012
«FACCIO LO SCRITTORE»
Era in ritardo, decisamente in ritardo. Tutto trafelato arrivò all’appuntamento correndo. Il luogo fissato per l’intervista era un caffè del centro e ad attenderlo c’era Maria Craipeau, una giornalista del «France-Observateur». «La prego di scusarmi. Sono proprio desolato, ma lei capirà: a pranzo ho incontrato Sartre. Sono appena ritornato dall’America, dove per sei mesi non ho sentito una sola parola di "conversazioni ideologiche". E subito, appena arrivato, Sartre mi spiega le nuove posizioni della sinistra europea...».
Sembra una delle tante battute al vetriolo di Woody Allen. Invece è l’inizio, comico e quanto mai veritiero, di un’intervista che ora per la prima volta possiamo leggere in italiano e che fa parte di un libro necessario, che mancava nell’elenco delle opere di Italo Calvino: 101 interviste raccolte e curate da Luca Baranelli (come sempre una garanzia) e precedute da una bella e densa introduzione di Mario Barenghi.
Dopo una frase così non occorre aggiungere altro per far comprendere al lettore da che parte sta Calvino e quale immagine vuole trasmettere di sé. Sì, certo, oggi si sa bene che una delle costanti del suo lavoro consiste nell’essere sempre stato proiettato verso il futuro più che verso il passato, ma è dirlo in quel modo (nel giugno del 1960) che fa la differenza con qualunque altro scrittore. È un po’, mi si passi il paragone, come quando Voltaire dopo aver visitato l’Inghilterra torna in Francia e descrive ciò che ha scoperto. Là ha lasciato un nuovo mondo, quello vuoto newtoniano e straordinariamente dinamico della Borsa di Londra, qui, invece, nel continente, nulla è cambiato, a dominare è ancora il mondo pieno cartesiano, e i vortici senza fine delle discussioni di ancien régime. Due mondi incommensurabili, così come lo erano per Calvino da un lato l’America, simbolicamente rappresentata dalla mastodontica Ibm Machine 705 («che in un minuto può fare 504mila addizioni o sottrazioni e in tre minuti leggere tutto Via col vento e copiarlo su un tape largo quanto un mignolo") e dall’altro il mondo di un’Europa sempre più aggrovigliata nelle defatiganti conversazioni ideologiche che Calvino ben conosceva, ed equivalenti per lui al mondo della vaghezza e dell’astrattezza che aveva deciso di abbandonare.
Sono nato in America: non c’è titolo migliore di questo per evocare la sua vocazione cosmopolita, il suo desiderio di abitare e vivere in più luoghi, lontanissimi l’uno dall’altro. Ma il suo slancio verso il futuro non deve trarre in inganno. Sarebbe superficiale e sbagliato concludere che il passato per lui contasse poco o assomigliasse ormai a una zavorra di cui disfarsi. Alcune delle pagine più belle del libro sono quelle in cui la riflessione sul tempo e sul tempo storico si fa più stringente. Ed è proprio un’altra intervista del 1960 a offrircene una prova esemplare e a farci capire quanto Calvino sia uno scrittore da maneggiare con cura.
Stesso anno, e stesso contesto, dunque. Calvino è appena tornato dagli States, ma questa volta ad attenderlo non ci sono le discussioni con Sartre: «Qualche mese fa, tornavo dall’America, a Torino c’era quella serie di lezioni su cosa è stato il fascismo e l’antifascismo; ogni volta il teatro Alfieri gremito, e in mezzo a questa folla ritrovavo le facce di quel piccolo grande mondo che è l’antifascismo, la gente della Resistenza, di nuovo insieme, qualsiasi via si fosse presa, e in più moltissimi giovani, facce nuove. Ebbene, è stato un bel ritorno in patria; ci siamo sempre e contiamo; difatti di lì a poco qualcosa si è visto» (e il riferimento è alle manifestazioni contro il governo Tambroni). Ecco, in questo caso il ritorno a casa è di segno opposto a quello parigino. Il fascino tutto tecnologico che Calvino subisce nel visitare l’Ibm o lo Stock Exchange, la Borsa di New York, non cancella il passato ma coesiste con la passione civile che resterà anch’essa un tratto costante della sua biografia e della sua attività di scrittore. Da lui mai cancellata o rifiutata, semmai con il passare degli anni sempre più nascosta o forse è più corretto dire trasfigurata, fino ad assumere le esili forme di uno sciame di effimere che con un guizzo tentano di sfidare il volto di Medusa.
Proprio nella conversazione del 1960 con Carlo Bo, in cui un Calvino felice ricorda con entusiasmo quel ciclo di lezioni sull’antifascismo organizzato da Franco Antonicelli (relatori Franco Venturi, Lelio Basso, Norberto Bobbio, Leo Valiani, Roberto Battaglia) e di cui fu testimone, c’è una dichiarazione che piacerà senz’altro a chi si diletta a collezionare le sue parole come se fossero massime da incorniciare: «Contano sempre gli uomini prima delle idee. Per me le idee hanno sempre avuto occhi, naso, bocca, braccia, gambe. La mia storia politica è innanzitutto una storia di presenze umane». Aforismi a parte, si tratta di una precisa connotazione di sé che costituisce uno degli architravi dell’intera fabbrica calviniana. Barenghi sottolinea che Calvino diceva di sé «faccio lo scrittore», e non «sono uno scrittore». Ed è un’osservazione preziosa. Il fare, invece dell’essere, acquista in lui quasi un valore assiomatico, che si porta dietro una quantità di corollari che proverò qui solo a elencare. A cominciare da un’immagine: quella di uno scrittore che non si ripete mai, che per tutta la vita non fa altro che costruire e poi verificare la tenuta di progetti diversissimi tra loro e da lui sempre considerati difficili da realizzare. Da cui deriva una conseguenza non meno importante, ovvero che Calvino è uno scrittore sperimentale nel senso più pieno del termine, che ha in odio tutto ciò che è fumoso e approssimativo perché sfugge a qualsiasi conferma o falsificazione.
Di qui nasce, e questo libro lo mostra chiaramente, il suo disgusto «fondamentale» per la parola parlata, «per questa roba che esce dalla bocca, informe, molle». Che contiene in sé un enorme spreco: e per un «montaliano fanatico» (parole sue datate 1979) era una delle cose peggiori che potesse accadere. Un disgusto che arriva a un punto tale che in alcune interviste è lui stesso a costruirsi le domande e a fingere poi che siano state formulate dal giornalista di turno. In certi casi si tratta di vere e proprie autointerviste; in altri – e gli accurati controlli di Baranelli sugli originali conservati nell’Archivio Calvino lo confermano ampiamente – è Calvino a preferire la risposta scritta invece di quella parlata. «Non mi piace sentirmi parlare», dichiarerà più volte ai suoi intervistatori. Ma, ovviamente, il punto vero della questione era ben altro. E lo dirà lui stesso, in una lunga e importante conversazione-saggio con Ferdinando Camon: «Cercare di far diventare nella scrittura questa parola, che è sempre un po’ schifosa, qualcosa di esatto e di preciso, può essere lo scopo di una vita». Della sua vita, appunto, cioè di uno scrittore morale la cui attività non è mai disgiunta da quel "fare" sempre in rotta di collisione con qualunque atteggiamento moralistico (leggi, tra gli altri, Pasolini) e con «certo volontarismo campato in aria» (leggi certa sinistra sessantottina).
«Un empirico come me», amava dire di se stesso. «Per me la letteratura coincide col dubbio. Essa deve avanzare a tentoni, insegnare alle altre discipline che si può avanzare solo brancolando, tenendo conto di tutte le facce della realtà». Una letteratura sperimentale, dunque. E insieme figurale. Come quella che ritrovava ogni volta che leggeva uno dei suoi autori preferiti, Ariosto, dove «c’è solo pensiero figurale, pensiero per figure e immagini, che ti trascina. Una bella terapia, soprattutto contro i malanni del pensiero discorsivo, del pensare per generalità». Un’espressione non sua ma di Gianni Celati, tratta da un’intervista del 2002, e che Calvino avrebbe condiviso senza riserve. Parola per parola. Come risulta da un passaggio della conversazione con Camon del 1973: «Solo se il discorso è figurato, indiretto, non riducibile a termini generici, a facilonerie concettuali, cosciente delle proprie implicazioni, ambiguità, esclusioni, solo allora dice veramente qualcosa, non mente».
Domani, 15 ottobre, Italo Calvino compie 89 anni. E questo libro è il più bel regalo di compleanno che possa desiderare: la sua autobiografia.