Ermanno Bencivenga, Il Sole 24 Ore 14/10/2012, 14 ottobre 2012
PERCHÉ ESISTONO I GIORNALI
Perché esiste il giornalismo? Ho provato a chiedermelo (su un giornale) quindici anni fa, quando la rete era ancora in fasce, e ho risposto a modo mio: perché nell’universo caotico delle notizie sempre disponibili in tempo reale c’è bisogno di una bussola, di persone competenti e autorevoli che sappiano indicare criteri di selezione e di giudizio, che sappiano combinare gli stimoli più disparati in un percorso coerente e significativo, da cui sia possibile imparare e non solo essere informati. Il silenzio intorno a questa tesi è stato assordante; come conseguenza, i grandi organi di stampa nazionali hanno inseguito i pettegolezzi più insulsi e diffuso le più prevedibili marchette continuando a perdere vendite in modo vertiginoso. Senza una decisa inversione di tendenza, nel nostro Paese il giornalismo come l’ho conosciuto da giovane si ridurrà presto al nulla, come è capitato a registratori e macchine da scrivere e sta capitando a calendari e agende telefoniche. (E i giornalisti faranno la fine delle dattilografe.)
Ho ripensato alla mia domanda leggendo Why Does the World Exist?, di Jim Holt, un giornalista del «New Yorker» affascinato dalla questione aperta da Leibniz e Heidegger: Perché esiste qualcosa piuttosto che niente? Sebbene abbia studiato filosofia all’università, la legga tuttora con passione e abbia incontrato alcuni dei massimi filosofi viventi e dialogato con loro per ricevere lumi sull’enigma che lo ha sedotto, Holt non è un pensatore originale o particolarmente rigoroso. Quando verso il termine del libro cerca di fornire una sua soluzione del problema, la dimostrazione da lui proposta (e inviata a Derek Parfit, che replica glissando in modo elegante e discreto) fa acqua da tutte le parti. Ma non importa. Il testo di Holt è valido e utile perché rappresenta lavoro giornalistico di prim’ordine, lo stesso che impera nella rivista in cui lavora e che sono fiero di leggere ogni settimana, dalla prima all’ultima pagina: chiaro nell’articolare i concetti più astrusi e nel collegarli pazientemente al tema in discussione, abile nell’illuminare i risvolti personali ed emotivi delle argomentazioni offerte in sua presenza da fisici, filosofi, teologi e scrittori, avvincente nel costruire una narrativa in cui ogni passo conduce con naturalezza al successivo e ogni capitolo si chiude con un interrogativo che il prossimo capitolo si premurerà di sviscerare, con l’aiuto di un nuovo compagno di viaggio.
Adolf Grünbaum a Pittsburgh nega la legittimità della questione perché ritiene che il concetto di nulla sia privo di senso e dichiara che chi se la pone (Wittgenstein, per esempio) debba (o dovesse) rivolgersi alle cure di uno psichiatra. Richard Swinburne a Oxford trova la risposta in Dio, da lui considerato induttivamente la spiegazione più probabile dell’esistenza. Alex Vilenkin a Boston afferma che da un punto di vista quantistico il nulla è instabile e dunque dal nulla, ogni tanto, emerge una minuscola quantità di energia che in un paio di microsecondi, per "inflazione", si espande a proporzioni cosmiche producendo un Big Bang.
John Leslie dell’Università di Guelph in Canada teorizza che il mondo (anzi, un insieme infinito di mondi fra loro indipendenti, tutti oggetto di contemplazione da parte di infinite menti dotate di divina onniscienza) esista perché questa condizione è eticamente migliore di ogni alternativa (i valori morali, in quella che lui concepisce come una variante contemporanea del messaggio platonico, controllano la realtà). John Updike sogna un Dio annoiato che crea il mondo per divertirsi. E Holt annota, commenta, obietta e critica: un profano, certo, ma provvisto di cervello non meno dei suoi interlocutori, ed espressione quindi di quella democrazia (non demagogia!) intellettuale (come, in altri casi, sarebbe politica o economica) che è l’essenza stessa del giornalismo. Qualcun altro ne saprà più di me, o avrà più potere o più soldi di quanti ne abbia io, ma ho tutto il diritto, anzi il dovere, di chiedergliene conto e poi di raccontare ai miei lettori quel che ho appreso e capito, senza fretta, con tutti i dettagli, in modo non rozzamente divulgativo ma solidamente comunicativo, cosicché anche loro capiscano e le loro, d’ora in avanti, possano essere scelte più consapevoli e razionali.
È forse un’esagerazione asserire che i giornali dovrebbero imparare il mestiere da questo libro, ma neanche tanto. In forma un po’ ridotta, il suo contenuto potrebbe essere pubblicato in serie su un quotidiano come il «Los Angeles Times», che compare ogni mattina davanti al portone di casa mia e da tempo ormai privilegia la riflessione sulla cronaca. Sta di fatto che senza la serietà, la profondità e la ricchezza di simili inchieste sui massimi sistemi non sarebbe possibile spiegare perché debba esistere il giornalismo piuttosto che niente, dunque non sarebbe possibile arrestare la deriva che ci sta portando dal giornalismo al niente.