Marco Magrini, Il Sole 24 Ore 14/10/2012, 14 ottobre 2012
TORNA LO SPETTRO DELL’«AGFLAZIONE»
Sta per tornare l’agflazione. Un neologismo – si dice coniato dalla Merrill Lynch nel 2007, ai tempi dell’ultima crisi alimentare – che sta per agricultural inflation. Le recenti siccità nei granai del mondo (Stati Uniti, Russia e Sudamerica) avranno un effetto inflattivo sui prezzi del cibo per quasi tutto il 2013. Secondo un rapporto fresco di stampa della Rabobank, intitolato «Il ritorno dell’agflazione», l’indice Fao dei prezzi salirà del 15%, da qui al prossimo giugno.
«Questa volta – si legge – le commodities interessate sono più quelle usate nei mangimi animali (soia e mais) che non le principali fonti nutritive dei paesi in via di sviluppo (come grano e riso)». Ma la banca olandese si attende «un ritorno degli interventi governativi», come i blocchi alle esportazioni che mandarono i prezzi alle stelle nel 2007-2008.
Non è una bella notizia. Ma è drammatica per i più affamati angoli del mondo.
A due anni dal 2015, il traguardo fissato dagli Obiettivi del Millennio delle Nazioni Unite, il pianeta non è poi così lontano dall’aver davvero dimezzato la fame. Ma quasi solo grazie alla galoppante crescita economica che Cina, Brasile e India – nazioni con una popolazione capace di influenzare le medie aritmetiche – hanno messo a segno.
L’indice Ghi (global hunger index) del 2012, appena aggiornato dall’International Food Policy Institute, dice che, dal 1990 a oggi, i sottonutriti sono diminuiti del 57% in Cina, del 62% in Messico e del 74% in Turchia. Il che si deve all’andamento dei rispettivi prodotti interni lordi, ma anche alle politiche governative. La prova del nove viene dalla lista dei "perdenti" del Ghi: l’instabile Costa d’Avorio registra un +10%, ma l’autarchica tirannide della Corea del Nord totalizza un +21%.
Certo, molto dipende anche da come si fanno i conti. L’ultimo report su «Lo stato dell’insicurezza alimentare nel mondo», redatto da Fao, Ifad e World Food Programme, ha rivisto il modo di calcolare le stime sulla fame, usando come parametro la distribuzione delle calorie. Il computo dice che 870 milioni di persone, il 12,5% dell’umanità, sono malnutrite.
Dal 1990, i miglioramenti ci sono stati (fatalmente diventano più marcati col nuovo metodo di calcolo), «ma si sono fermati dal 2007-2008 a oggi», sentenzia il rapporto. «I nuovi calcoli implicano che l’obiettivo di dimezzare la fame entro il 2015 è portata di mano, a patto di rovesciare il rallentamento» degli ultimi cinque anni. Peccato che le previsioni sui prezzi 2013 lascino immaginare il contrario.
Nel mondo c’è un food divide, un divario alimentare, a vari livelli. Perfino negli opulenti Stati Uniti, dove gli Stati con i redditi procapite più bassi consumano cibi di bassa qualità e hanno il problema dell’obesità diffusa. Un problema che, su scala planetaria, fa da grottesco contraltare alla grottesca malnutrizione dell’Africa subsahariana.
Siccome la (possibile) crisi del 2013, per i motivi già spiegati, farà salire più i prezzi della carne che non del grano, alcuni paesi «torneranno al consumo di cereali e scaleranno quello di proteine», prevedono alla Rabobank. Il che sarebbe un altro paradosso del divario alimentare.
Per fare un’etto di pane, ci vogliono 133 litri d’acqua. Per un’hamburger da un etto, ce ne vogliono 1.600. E anche l’impatto ambientale – in termini di emissioni di anidride carbonica – è molto più moderato per i pasti vegetariani, che non quelli a base di carne. Un nuovo studio del Barilla Center for Food & Nutrition, calcola che una famiglia italiana acquisti 53 chili di alimenti la settimana, con un "impatto di carbonio" di 114 chili di CO2. Una famiglia americana invece, compra 41 chili di cibo ed "emette" 128 chili. I turchi, che consumano più vegetali, mangiano il doppio e contribuiscono all’effetto-serra con solo 103 chili di CO2. «Fra l’altro - dicono alla Barilla - risparmiando».
I paradossi del mondo globalizzato cominciano dalla tavola. Speriamo che l’agflazione alle porte, non li aggravi.