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 2012  ottobre 15 Lunedì calendario

RAYMOND CARVER L’ARTE DELLA NARRAZIONE

[vedi appunti]

Raymond Carver vive in una grande casa a due piani rivestita di legno in una silenziosa via di Syracuse, New York. Il prato sul davanti digrada via via verso il marciapiedi. Sul vialetto d’accesso c’è una Mercedes nuova. Una Volkswagen più vecchia, l’altra automobile di casa, è parcheggiata lungo la strada.
Per entrare in casa si attraversa un’enorme veranda coperta. All’interno gli arredi sono del tutto impersonali. Ogni cosa è intonata all’altra – divani color crema, un tavolino basso di vetro. Tess Gallagher, la scrittrice con la quale Raymond Carver vive, colleziona piume di pavone che dispone nei vari vasi in giro per la casa — il più vistoso tentativo ornamentale. I nostri sospetti sono stati presto confermati; Carver ci racconta che tutti i mobili sono stati comprati e consegnati nell’arco di una giornata.
Su un cartello di legno, che viene appeso sulla porta a vetri, Tess Gallagher ha scritto con un po’ di vernice “Niente visitatori”, facendo tutto intorno una cornice con un contorno giallo e arancione a forma di ciglia. A volte il telefono viene staccato e il cartello resta appeso fuori per giorni interi.
Raymond Carver lavora in una grande stanza all’ultimo piano. La superficie della lunga scrivania di legno di quercia è ordinata; la macchina da scrivere è appoggiata di lato, su una specie di ala. Non ci sono cianfrusaglie, né talismani, né giocattoli di nessun tipo sul suo tavolo da lavoro. Non è un collezionista né un uomo incline ai cimeli o alla nostalgia. Talvolta può capitare di trovare una busta di manila sulla scrivania, con all’interno il testo che sta revisionando proprio in quel momento. I suoi archivi sono ben ordinati. È in grado di tirar fuori un racconto e tutte le precedenti versioni in un attimo. Le pareti dello studio sono bianche come il resto della casa, e, come nel resto della casa, sono per lo più spoglie. La luce filtra nella stanza in fasci obliqui, come quella che penetra dalle finestre nelle chiese, attraverso un’alta finestra rettangolare che dà sul suo piano di lavoro.
Raymond Carver è un uomo robusto che indossa vestiti semplici – camicie di flanella, pantaloni kaki o jeans. Sembra vivere e vestirsi come vivono e si vestono i personaggi dei suoi racconti. Per un uomo della sua stazza, ha una voce piuttosto bassa e indistinta; ci siamo trovati spesso a doverci chinare verso di lui ogni minuto per riuscire a cogliere quello che stava dicendo, ripetendo quel terribile: “Cosa, cosa?”.
Alcune parti dell’intervista le abbiamo condotte per posta, tra il 1981 e il 1982. Quando abbiamo incontrato Raymond Carver, il cartello “Niente visitatori” non era appeso e alcuni studenti di Syracuse erano passati a salutarlo, incluso suo figlio, un universitario all’ultimo anno. Per pranzo ci preparò dei sandwich con il salmone che aveva pescato lui stesso sulle coste di Washington. Lui e Tess vengono entrambi dallo stato di Washington e ai tempi dell’intervista si stavano facendo costruire una casa a Port Angeles, dove avevano programmato di trascorrere una parte dell’anno. Gli domandammo se quella era la casa che sentiva più sua. “No, io sto bene ovunque. Sto bene qui”, ci rispose.
Mona Simpson, Lewis Buzbee, 1983

Com’è stata la sua infanzia e cosa l’ha spinta a scrivere?
Sono cresciuto in un villaggio nella parte orientale dello stato di Washington, un posto chiamato Yakima. Mio padre lavorava nella segheria del villaggio. Era un affilatore e aiutava a tener bene le seghe usate per tagliare e levigare la legna. Mia madre faceva la commessa o la cameriera oppure restava a casa, ma non riusciva a mantenere a lungo un lavoro. Ricordo i discorsi sui suoi “nervi”. Nel pensile sotto il lavandino della cucina teneva un flaconcino di “medicina per i nervi”, e né prendeva un paio di cucchiaini ogni mattina. La medicina per i nervi di mio padre era il whisky. Spesso ne teneva una bottiglia sotto lo stesso lavandino, oppure fuori, nella legnaia. Ricordo che una volta ne rubai un sorso e lo trovai disgustoso, mi chiesi come si potesse bere quella roba. Abitavamo in una casetta di due camere. Ci spostavamo spesso quando ero bambino, ma sempre in case composte da due stanze. La prima di cui ho dei ricordi, vicino al luna park di Yakima, aveva il bagno fuori. Era alla fine degli anni Quaranta. Avevo otto o dieci anni all’epoca. Aspettavo mio padre dal lavoro alla fermata dell’autobus. Generalmente era puntuale come un orologio. Ma più o meno ogni due settimane, su quell’autobus non c’era. Restavo lì in attesa del successivo, già sapendo che non sarebbe stato nemmeno su quello. Quando succedeva, significava che se ne era andato a bere con i suoi amici della segheria. Ricordo ancora la tristezza e la disperazione a cena quando io, mia madre e mio fratello più piccolo ci sedevamo a mangiare.
Ma cosa la spinse a voler scrivere?
L’unica spiegazione che posso darvi è che mio padre mi raccontava molti racconti di lui da piccolo, di suo padre e suo nonno. Il nonno aveva combattuto nella Guerra civile. Per entrambe le fazioni! Era un voltagabbana. Quando il Sud cominciò a perdere la guerra, passò dalla parte del Nord e si mise a combattere per l’Unione. Mio papà rideva raccontando questa storia. Non ci vedeva niente di sbagliato, e forse nemmeno io. Ad ogni modo, mio padre mi raccontava queste storie, aneddoti senza alcuna morale in realtà, sulle camminate nei boschi, o di quando saltava sui treni in corsa facendo attenzione alle guardie ferroviarie. Adoravo la sua compagnia e adoravo ascoltarlo mentre mi raccontava queste storie. Ogni tanto mi leggeva stralci di quello che stava leggendo. I western di Zane Grey. Sono i primi libri con la copertina rigida, a eccezione dei testi scolastici e della Bibbia, che io abbia mai visto. Non capitava spesso, ma di tanto in tanto la sera lo vedevo sdraiato sul letto a leggere Zane Grey. Sembrava una cosa molto intima in una casa e in una famiglia in cui non c’era privacy. Mi resi conto che aveva questo lato segreto, qualcosa che non capivo e di cui non conoscevo niente, che trovava la sua massima espressione in quelle sue letture occasionali. Di lui mi interessava questa parte nascosta e l’atto della lettura. Gli chiedevo di leggermi quello che stava leggendo, e lui si prestava leggendo esattamente dal punto in cui si trovava nel libro. Dopo un po’ mi diceva, “Junior, ora va’ a fare qualcos’altro”. Beh, c’erano moltissime cose da fare. A quei tempi andavo a pescare in un torrente non troppo lontano da casa, e poco dopo a caccia di oche, anatre e selvaggina. Era ciò che mi entusiasmava in quei giorni, andare a caccia e a pesca. Hanno lasciato un segno nella mia vita emotiva, ed è di questo che volevo scrivere. Le mie letture all’epoca, oltre a qualche romanzo storico occasionale o ai gialli di Mickey Spillane, consistevano in alcune riviste di sport, escursionismo, caccia e pesca, come Sports Afield, Outdoor Life e Field & Stream. Scrissi un pezzo piuttosto lungo sui pesci che mi sfuggivano o su quelli che prendevo, uno dei due, e chiesi a mia madre se poteva battermelo a macchina. Non sapeva farlo ma andò comunque ad affittare una macchina da scrivere, santa donna, e in due riuscimmo a batterlo alla bell’e meglio e poi lo spedimmo. Ricordo che c’erano due indirizzi sulla testata della rivista di sport all’aperto; e che lo mandammo a quello più vicino a noi, a Boulder, Colorado, presso l’Ufficio Distribuzione. Il pezzo alla fine tornò indietro, ma andava bene lo stesso. Quel dattiloscritto era stato in giro per il mondo — era stato in diversi luoghi. Qualcuno lo aveva letto, oltre a mia madre. Poi sul Writer’s Digest notai una pubblicità. Era la fotografia di un uomo, un autore di successo, ovviamente, che pubblicizzava qualcosa chiamato il Palmer Institute of Authorship. Pensai che fosse la cosa adatta a me. Si pagava una cifra al mese. Venti dollari di anticipo, dieci o quindici dollari al mese per tre anni o trent’anni, una cosa del genere. Assegnavano compiti settimanali da svolgere, e poi mandavano gli esiti per ciascuna delle prove. Andò avanti per un po’. Poi forse mi venne a noia; smisi di fare i compiti. I miei genitori non pagarono più. E presto il Palmer Institute ci inviò una lettera informandomi che se avessi pagato il totale, avrei ancora potuto ottenere il certificato di completamento del corso. Mi sembrava più che giusto. Riuscii in qualche modo a convincere i miei a pagare il rimanente, e nel giro di poco tempo ricevetti l’attestato e lo appesi alla parete della mia camera. Ma per tutto il tempo in cui frequentai le superiori si dava per scontato che dopo il diploma sarei andato a lavorare alla segheria. Per un lungo periodo volevo davvero fare lo stesso tipo di lavoro di mio padre. Finita la scuola avrebbe chiesto al suo caporeparto di farmi lavorare con loro. Lavorai alla segheria per circa sei mesi. Ma era un lavoro che odiavo e dal primo giorno sapevo che non sarebbe rimasto quello per il resto della vita. Lavorai a sufficienza per mettermi da parte i soldi per comprare una macchina, dei vestiti, solo così potevo andare via di casa e sposarmi.
Invece alla fine, per qualche motivo, andò al college. Fu sua moglie a volerlo? La incoraggiò in questo senso? Oppure era un desiderio di sua moglie andare al college e questo servì da spinta anche per lei? Quanti anni aveva a questo punto? Anche lei doveva essere piuttosto giovane.
Io avevo diciotto anni, lei sedici. Era incinta e si era appena diplomata in una scuola privata episcopale di Walla Walla, a Washington. A scuola aveva imparato come si teneva in mano correttamente una tazza di tè; aveva ricevuto un’istruzione religiosa, e qualche nozione di educazione fisica, cose così, ma aveva anche imparato qualcosa di fisica, letteratura e lingue straniere. Ero davvero impressionato dal fatto che sapesse il latino. Il latino! Provò a frequentare il college saltuariamente in quei primi anni, ma era troppo difficile; era impossibile andare al college e portare avanti una famiglia e trovarsi anche sempre al verde. E dico proprio al verde. La sua famiglia non aveva soldi. La scuola l’aveva frequentata grazie a una borsa di studio. Sua madre mi odiava e mi odia tuttora. Mia moglie avrebbe dovuto diplomarsi per poi andare alla University of Washington a studiare legge con una borsa di studio. Invece, la misi incinta, ci sposammo e cominciammo una vita insieme. Aveva diciassette anni quando è nato il nostro primo figlio, e diciotto al secondo. Cosa dire? Non abbiamo avuto una gioventù. Ci trovammo a vivere ruoli che non sapevamo interpretare. Ma abbiamo fatto del nostro meglio. Anche di più, mi piace pensare. Alla fine riuscì davvero a finire il college. Ottenne la sua laurea al San Jose State dodici o quattordici anni dopo essere sposati.
Ha scritto durante questi primi anni difficili?
Di notte lavoravo e di giorno andavo a scuola. Lavoravamo sempre. Lei lavorava e cercava di crescere i figli e gestire la casa. Lavorava per la compagnia telefonica. Durante il giorno i bambini stavano con una baby-sitter. Finalmente mi laureai all’Humboldt State College, così caricammo tutto in macchina in uno di quei portapacchi che si mettono sopra l’auto, e andammo a Iowa City. Un insegnante di nome Dick Day dell’Humboldt State mi aveva parlato del seminario Iowa Writers’ Workshop. Day aveva mandato un mio racconto e tre o quattro poesie a Don Justice, il quale riuscì a farmi ottenere una borsa di studio di cinquecento dollari a Iowa.
Cinquecento dollari?
Non potevano fare di più, dissero. Sembrava molto, all’epoca. Ma non completai il corso. Mi offrirono altri soldi per restare anche il secondo anno, ma non ce la facevamo proprio. Lavoravo in biblioteca per uno o due dollari l’ora, e mia moglie come cameriera. Mi serviva un altro anno per prendere la laurea, e non ci potevamo permettere di fermarci. Così tornammo in California. Questa volta a Sacramento. Trovai lavoro come custode notturno al Mercy Hospital. Ci rimasi per tre anni. Era un ottimo impiego. Dovevo lavorare solo due o tre ore a notte ma mi pagavano per otto. Bisognava portare a termine determinate cose, ma una volta fatte, finiva lì – potevo andarmene a casa o fare quello che volevo. Il primo anno tornavo a casa ogni notte e riuscivo a coricarmi a un orario ragionevole per potermi alzare al mattino e scrivere. I bambini erano già dalla baby-sitter e mia moglie al lavoro faceva la venditrice porta a porta. Avevo tutto il giorno davanti. Per un po’ andò benissimo. Poi la sera, invece di tornare a casa, lasciavo il lavoro per andare a bere. A questo punto eravamo nel 1967 o 1968.
Quando le riuscì di pubblicare qualcosa per la prima volta?
Mentre studiavo all’Humboldt State di Arcata, California. Un giorno piazzai un racconto su una rivista e una poesia su un’altra. Fu fantastico! Forse uno dei giorni più belli in assoluto. Io e mia moglie facemmo il giro della città in macchina mostrando la lettera di accettazione a amici. Era una conferma di cui avevamo u per la nostra vita.
Quale fu il primo racconto? E quale la prima poesia?
Un racconto intitolato “Pastorale” che venne pubblicato sulla western Humanities Review. È una buona rivista letteraria e viene ancora pubblicata dalla University of Utah. Non mi diedero niente per il racconto, ma non importava. La poesia si intitolava L’anello di ottone, e fu pubblicata da una rivista dell’Arizona che oggi non esiste più, si chiamava Target. Charles Bukowski pubblicò una poesia su quel numero, ed ero felice di comparire sulla stessa rivista. Per me era una specie di eroe a quei tempi.
È vero – mi è stato riferito da un suo amico — che festeggiò la sua prima pubblicazione portandosi a letto la rivista?
È vero in parte. In realtà si trattava di un libro. The Best American Short Stories, un’antologia che usciva una volta all’anno. Il mio racconto “Vuoi star zitta, per favore?” era appena apparso nella raccolta. Erano i lontani anni Sessanta, quando l’edizione veniva curata da Martha Foley e la gente era solita soprannominarla così – semplicemente “The Foley Collection”. Il racconto era stato pubblicato da una sconosciuta e minuscola rivista di Chicago intitolata December. Il giorno in cui l’antologia finì nella mia cassetta delle lettere, me la portai a letto per leggerla, anche solo per guardarla, sì, insomma, e per tenerla in mano, ma passai più tempo a guardarla e tenerla in mano che leggerla. Mi addormentai e mi svegliai la mattina dopo con il libro lì nel letto accanto a me, insieme a mia moglie.
In un articolo ha scritto per il New York Times Book Review ha fatto riferimento a una storia “troppo noiosa da affrontare qui”— sul perché preferisce scrivere racconti e non romanzi. Vorrebbe affrontarla ora?
La storia “troppo noiosa da affrontare” riguarda una serie di cose non molto piacevoli di cui parlare. Alla fine ne ho scritto nel saggio “Fires”, pubblicato su Antaeus. Ho detto che uno scrittore viene giudicato per ciò che scrive, ed è così che dovrebbe essere. Le circostanze che ruotano intorno alla scrittura sono un’altra cosa, sono extraletterarie. Nessuno mi ha mai chiesto di fare lo scrittore. Ma è stato davvero difficile sopravvivere e pagare le bollette e procurarsi il cibo da mettere a tavola, e allo stesso tempo considerarmi uno scrittore e imparare a scrivere. Dopo anni passati a fare lavori orribili e a crescere i figli tentando di scrivere, mi resi conto che dovevo scrivere qualcosa che sarei riuscito a concludere e ultimare in fretta. Non potevo mettermi ad affrontare un romanzo, un lavoro di due o tre anni su un singolo progetto. Dovevo scrivere qualcosa da cui trarre una ricompensa immediata, non dopo un anno, né tantomeno dopo tre. Quindi, poesie e racconti. Cominciavo a rendermi conto che la mia vita non era — diciamo che non era esattamente come avrei voluto che fosse. C’era sempre un carico di frustrazioni con cui fare i conti — voler scrivere e non trovare né il tempo né il posto per poterlo farlo. Di solito uscivo e mi mettevo in macchina cercando di scrivere su un taccuino appoggiato sulle gambe. Questo quando i ragazzi erano ormai adolescenti. Avevo tra i venti e trent’anni. Ci trovavamo ancora in condizioni di indigenza, avevamo alle spalle una bancarotta, e anni di duro lavoro senza che nulla lo ripagasse a eccezione di una vecchia macchina, una casa in affitto e nuovi creditori alle calcagna. Era una situazione deprimente, e mi sentivo spiritualmente annichilito. L’alcol divenne un problema. Avevo praticamente rinunciato, gettato la spugna, e bere era diventata un’attività seria, a tempo pieno. Tutto questo fa parte di ciò a cui mi riferivo quando parlavo di questioni “troppo noiose da affrontare”.
Potrebbe parlarci un po’ di più della sua esperienza con l’alcol? Moltissimi scrittori, non alcolisti, bevono tantissimo.
Forse non molto più di altre categorie di lavoratori. Ne sareste sorpresi. Ovviamente c’è una mitologia legata al fatto di bere, ma non mi ha mai riguardato. Mi riguardava solo l’alcol. Credo di aver cominciato a bere seriamente dopo essermi reso conto che le cose che più desideravo per me, per la mia scrittura, e per mia moglie e i miei figli, semplicemente non si sarebbero verificate. È strano. Non si comincia mai con l’intenzione di diventare un fallito o un alcolista o un imbroglione o un ladro. E nemmeno un bugiardo.
E lei è stato tutto questo?
Lo sono stato. Non lo sono più. Oh, di tanto in tanto dico qualche bugia, come tutti.
Da quanto tempo non beve più?
2 giugno 1977. Se volete proprio saperlo, sono più orgoglioso di questo, di aver smesso di bere, di qualsiasi altra cosa al mondo. Sono un alcolista guarito. Sarò sempre un alcolista, ma non più praticante.
Quanto male le ha fatto l’alcol?
È molto doloroso pensare ad alcune delle cose avvenute in quel periodo. Tutto ciò che toccavo lo trasformavo in un deserto. Ma devo aggiungere che dopo aver bevuto non rimaneva comunque granché da toccare. Cose specifiche? Diciamo che in alcune occasioni venivano coinvolte la polizia, il pronto soccorso e i tribunali.
Com’è riuscito a smettere? Cosa gliel’ha permesso?
Nell’ultimo anno della malattia, il 1977, fui ricoverato due volte in un centro di riabilitazione, oltre che in ospedale; e passai alcuni giorni in un posto chiamato DeWitt, vicino a San Jose, in California. Il DeWitt era un ospedale per criminali disturbati. Verso la fine della mia vita di alcolista avevo completamente perso il controllo e mi trovavo in condizioni gravissime. Soffrivo di vuoti di memoria, in tutti i sensi: momenti in cui non riesci a ricordare niente di ciò che dici o fai per un certo periodo di tempo. Puoi guidare la macchina, fare una conferenza, tenere una lezione, aggiustare una gamba rotta, andare a letto con qualcuno e non ricordare assolutamente niente dopo. È come avere il pilota automatico. Ho davanti l’immagine di me seduto nel soggiorno di casa con un bicchiere di whisky in mano e la testa fasciata per una caduta causata da una convulsione da alcol. Follia! Due settimane dopo ero ancora in un centro di riabilitazione, questa volta in un posto chiamato Duffy’s, a Calistoga, in California, nella regione del vino. Fui ricoverato al Duffy’s in due occasioni diverse: nel posto chiamato DeWitt, a San Jose, e in un ospedale di San Francisco — tutto nell’arco di dodici mesi. Una situazione piuttosto grave, direi. Stavo morendo a causa di questo problema, chiaro e semplice, e non sto esagerando.
Cosa l’ha portata a smettere completamente di bere?
Era la fine maggio del 1977. Vivevo da solo in una piccola cittadina nel Nord della California, ed ero sobrio da circa tre settimane. Mi misi in macchina e andai a San Francisco, dove c’era una conferenza sull’editoria. Fred Hills, all’epoca capo redattore della McGraw-Hill, voleva portarmi fuori a pranzo e offrirmi dei soldi per scrivere un romanzo. Ma un paio di sere prima, un mio amico aveva organizzato una festa. A metà della serata mi feci un bicchiere di vino, ed è l’ultima cosa che ricordo. Vuoto di memoria. L’indomani, quando aprirono i negozi, ero già fuori in attesa di comprarmi una bottiglia. La cena quella sera fu un disastro; gente che litigava e si alzava da tavola. La mattina dopo dovevo alzarmi per andare a quel pranzo con Fred Hills. I postumi erano tali che quando mi svegliai riuscivo a malapena a tenere dritta la testa. Ma prima di passare a prendere Hills, buttai giù mezza pinta di vodka e per un po’ la cosa mi aiutò. Poi gli venne voglia di andare fino a Sausalito per mangiare! Con quel traffico intenso ci mettemmo almeno un’ora, e io oltre ai postumi della sera prima ero anche ubriaco, potete immaginare. Comunque, per qualche ragione, non si tirò indietro e mi propose lo stesso la cifra per scrivere il romanzo.
L’ha mai scritto quel romanzo?
Non ancora! Comunque riuscii ad andar via da San Francisco e a tornare a casa. Restai in preda all’ubriachezza per altri due giorni e poi mi svegliai. Mi sentivo malissimo, ma non toccai niente quel mattino. Niente di alcolico, voglio dire. Stavo male sia fisicamente che mentalmente, ovviamente, ma anche lì non toccai nulla. Nulla per tre giorni, poi dopo il terzo cominciai a sentirmi meglio. Così ho semplicemente continuato a non bere. Con il tempo la distanza fra me e gli alcolici è aumentata. Una settimana, due. All’improvviso era passato un mese. Ero sobrio da un mese, e stavo lentamente cominciando a star bene.
L’associazione degli Alcolisti Anonimi l’ha aiutata?
Moltissimo. Andavo almeno a uno o due incontri al giorno, il primo mese.
Ha mai avuto la sensazione che l’alcol le fosse di ispirazione? Sto pensando alla poesia “Vodka” pubblicata sull’Esquire.
Mio Dio, no! Spero di averlo chiarito. Cheever sosteneva che sapeva sempre riconoscere “un verso alcolista” nell’opera di uno scrittore. Non sono del tutto sicuro di ciò che intendesse ma credo di saperlo. Quando insegnavamo all’Iowa Writers’ Workshop nel semestre autunnale del 1973, io e lui non facevamo altro che bere. Certo, sì, andavamo a lezione, per così dire. Ma durante tutto il periodo che restammo lì – vivevamo in un hotel del campus, la Iowa House — credo che nessuno dei due abbia mai nemmeno sfilato la custodia dalla macchina da scrivere. Andavamo al negozio di alcolici due volte a settimana con la mia macchina.
Per fare la scorta?
Sì, per le scorte. Ma il negozio non apriva prima delle dieci del mattino. Una volta decidemmo di farci un salto presto, proprio alle dieci, e dovevamo incontrarci nella hall dell’albergo. Scesi presto per prendere le sigarette e trovai John che passeggiava avanti e indietro. Indossava dei mocassini, ma senza calze. Ad ogni modo, partimmo un po’ troppo presto. Quando arrivammo al negozio il commesso stava aprendo la porta d’ingresso. Quel mattino John scese dall’auto prima che io riuscissi a parcheggiare come dovevo e quando entrai nel negozio si trovava già alla cassa con mezzo gallone di scotch. Lui abitava al quarto piano dell’albergo mentre io al secondo. Le nostre stanze erano identiche, fino all’ultima riproduzione dello stesso dipinto appesa alla parete. Ma quando bevevamo insieme, lo facevamo sempre in camera sua. Diceva che aveva paura di venire a bere al secondo piano. Diceva che c’era sempre il rischio che venisse aggredito nel corridoio! E come ovviamente saprete, non molto tempo dopo che Cheever se n’era andato da Iowa City, si affidò a un centro di riabilitazione e smise di bere. Rimase sobrio fino alla morte.
Crede che le confessioni pubbliche che si fanno ai raduni degli Alcolisti Anonimi abbiano influenzato la sua scrittura?
Ci sono diversi tipi di incontro – durante gli speaker meeting una sola persona parla per cinquanta minuti di com’era la situazione prima, e magari di com’è in quel momento. Negli altri, invece, tutti i partecipanti hanno la possibilità di raccontare qualcosa. Ma non posso dire con tutta onestà di essermi consapevolmente ispirato a quello che ho sentito durante questi incontri per i miei racconti.
Allora da dove arrivano le sue storie? Mi riferisco soprattutto a quelle che hanno a che fare con l’alcol.
Le narrazioni che mi interessano di più hanno sempre un contatto con il mondo reale. Nessuna delle storie che scrivo è successa davvero. Ma c’è sempre qualcosa, un elemento, una cosa che mi è stata detta o che ho visto, che potrebbe essere il punto da cui partire. Faccio un esempio: “Questo è l’ultimo Natale che riuscirai a rovinarci!”, ero ubriaco quando ho sentito questa frase, ma è rimasta tra i ricordi. E dopo, molto tempo dopo, da sobrio, utilizzando solo una battuta e altre cose che ho immaginato, ma immaginato talmente nel dettaglio che avrebbero potuto essere accadute sul serio, c’ho scritto un racconto – “Un discorso serio”. Ma le narrazioni che mi interessano di più, che sia Tolstoj, Čechov, Barry Hannah, Richard Ford, Hemingway, Isaac Babel, Ann Beattie o Anne Tyler, mi colpiscono per la componente autobiografica. O quanto meno referenziale. Le narrazioni, brevi o lunghe che siano, che non si materializzano nell’aria. Mi viene in mente una conversazione in cui e’era John Cheever. Eravamo seduti intorno al tavolo a Iowa City con altre persone e, fra le varie cose, si mise a raccontare che la mattina dopo una litigata avvenuta in famiglia la sera, si alzò, andò in bagno e trovò sullo specchio una scritta fatta da sua Piglia con il rossetto: “C-ia-r-o papa, non lasciarci”. Qualcuno al tavolo disse. Ma l’ho letto in uno dei tuoi racconti. E Cheever rispose, È probabile. Tutto quello che scrivo è autobiografico. Ora, questo non è letteralmente vero. Ma tutto quello che scriviamo, in un certo senso, è autobiografico. Non mi irrita per niente l’“autobiografismo”. Al contrario. Sulla strada. Céline. Roth. Lawrence Durrell nel Quartetto di Alessandria. Gran parte di Hemingway nelle storie di Nick Adams. E anche Updike, potete scommetterci. Jim McConkey. Clark Blaise è uno scrittore contemporaneo la cui produzione è autobiografia allo stato puro. Ovviamente devi sapere cosa stai facendo quando romanzi gli avvenimenti della tua vita. Bisogna essere estremamente intrepidi, molto abili, immaginativi e pronti a dire tutto di sé. Da giovane ti ripetono ininterrottamente che bisogna scrivere di ciò che conosci, e cosa si conosce più dei propri segreti? Ma a meno che uno non sia uno scrittore di un certo tipo, e molto talentuoso, è pericoloso tentare di scrivere un volume dopo l’altro sulla “Storia della propria vita”. Per molti il rischio maggiore, o quanto meno la tentazione più forte, è di avere un approccio troppo autobiografico. Poca autobiografia e molta immaginazione è la combinazione ideale.
I suoi personaggi cercano di fare le cose che contano?
Credo ci stiano provando. Ma tentare e riuscirci non vanno sempre insieme. In alcune vite, capita che le persone riescano; e penso sia grandioso quando questo accade. In altre, le persone falliscono proprio in quello che più desiderano ottenere, nelle cose importanti o in quelle più piccole che però rappresentano un sostegno per la loro vita. Queste vite, ovviamente, sono ottime come materiale di scrittura, l’esistenza di chi non ha successo. Gran parte della mia esperienza, diretta o indiretta, ha a che fare con la seconda condizione. Ritengo che i miei personaggi, per la maggior parte, vorrebbero che le loro azioni contassero qualcosa. Ma allo stesso tempo hanno raggiunto la consapevolezza che così non è — ed è il caso di molti. Le cose non quadrano. Ciò che una volta ritenevi importante o per cui valeva perfino la pena morire ora non vale più niente. Quello che li infastidisce ormai è la loro vita, quella vita che si sgretola davanti ai loro occhi. Vorrebbero sistemare tutto, ma non sono in grado di farlo. E solitamente credo se ne rendano conto, dopodiché fanno del loro meglio, semplicemente.
Potrebbe dirci qualcosa su uno dei miei racconti preferiti inserito nella sua ultima raccolta? Dove è nata l’idea di “Perché non ballate?”?
Ero andato a trovare degli amici scrittori a Missoula, verso la metà degli anni Settanta. Stavamo bevendo tutti insieme e qualcuno ha raccontato la storia di una cameriera di nome Linda che una sera si era ubriacata con il suo fidanzato e aveva deciso di spostare tutti i mobili della camera da letto nel giardino sul retro. E così avevano fatto: il tappeto, la lampada, il letto, il comodino, tutto. Cerano quattro o cinque scrittori in quella stanza, e dopo che il tizio aveva terminato la storia qualcuno disse, “Beh, chi la scrive adesso?”. Non so chi altro avesse quell’intenzione, ma io lo feci. Non subito, qualche tempo dopo. Passarono circa quattro o cinque anni, mi pare. La modificai e aggiunsi delle cose, ovviamente. In effetti è stato il primo racconto che ho scritto dopo aver finalmente smesso di bere.
Quali sono le sue abitudini di scrittore? Lavora costantemente a un racconto?
Quando scrivo, lo faccio tutti i giorni. È bellissimo quando è così. Un giorno che si incastra in quello successivo. A volte non so nemmeno quale della settimana sia. La “ruota a pale dei giorni”, l’ha definita John Ashbery. Quando non scrivo, tipo adesso, troppo preso dai miei impegni di insegnante — cosa che è successa nell’ultimo periodo è come se non avessi mai scritto una parola in vita mia e non avessi mai avuto il desiderio di farlo. Prendo delle cattive abitudini. Sto alzato fino a tardi e dormo troppo. Ma va bene così. Ho imparato a essere paziente e ad aspettare il momento. Ho dovuto impararlo tanto tempo fa. La pazienza. Se credessi nei segni, penso che il mio sarebbe la tartaruga. Scrivo a sprazzi. Ma quando scrivo, metto insieme molte ore di fila alla scrivania, dieci o dodici o quindici in un’unica seduta, un giorno dopo l’altro. Ed è una cosa che adoro, quando succede. Dovete sapere che molte di queste ore le dedico alla revisione o alla riscrittura. Non c’è niente che mi piaccia di più, recuperare un racconto che ho in casa da tempo e rimettermi a lavorarci. E vale anche per la poesia. Non ho fretta di mandare quello che scrivo una volta finito, spesso lo conservo per mesi aggiungendo qualcosa o togliendo dell’altro. Non ci vuole poi tanto per la prima stesura. Di solito basta una seduta, ma serve del tempo per le diverse versioni del racconto. Sono arrivato a farne venti o trenta. Mai meno di dieci o dodici. È istruttivo, e incoraggiante, riguardare le prime versioni dei grandi scrittori. Mi vengono in mente le foto delle bozze di Tolstoj, per citare uno che amava le revisioni. O meglio, non so se le amasse o meno, ma è una cosa che faceva spesso. Revisionava sempre, fino al momento delle ultime bozze. Scrisse e riscrisse Guerra e pace per ben otto volte e fece perfino ulteriori correzioni sulle bozze. Sono cose che dovrebbero rincuorare tutti quelli che scrivono delle orrende prime stesure, come nel mio caso.
Ci dica cosa succede quando scrive un racconto.
Scrivo la prima versione velocemente, come ho detto. Di solito lo faccio a mano. Riempio le pagine più in fretta possibile. In alcuni casi, uso una specie di scrittura abbreviata personale, degli appunti che mi servono per ciò che dovrò fare quando ritornerò su quel racconto, Alcune scene le devo lasciare incompiute, in alcuni casi nemmeno le scrivo; quelle che necessiteranno di cure minuziose. Voglio dire, tutto ha bisogno di cure minuziose – ma alcune scene le lascio per la seconda o terza stesura, perché scriverle, e scriverle bene, richiederebbe troppo tempo in quella fase. Nella prima stesura si tratta di delineare il racconto, di dargli un’impalcatura. Poi in quelle successive penso al resto. Quando finisco la copia scritta a mano ne batto una a macchina e continuo da lì. Quando me lo trovo davanti sotto forma di dattiloscritto fa un effetto diverso, e migliore, ovviamente. Mentre batto la prima versione, comincio a riscrivere e ad aggiungere o cancellare qualcosa. Ma il lavoro vero arriva dopo aver fatto tre o quattro stesure del racconto. Per le poesie funziona allo stesso modo, solo che le versioni possono diventare anche quaranta o cinquanta. Donald Hall mi ha detto che a volte arriva perfino a scriverne un centinaio delle sue poesie. Riuscite a immaginarvelo?
I suoi metodi di lavoro sono cambiati?
I racconti di Di cosa parliamo quando parliamo d’amore sono per certi aspetti diversi. Anzitutto si tratta di un libro molto più consapevole rispetto all’intenzionalità di ogni mossa, a quanto c’è di calcolato. Prima di includere i racconti nel volume li ho fatti e disfatti e ci ho lavorato come non avevo mai fatto prima. Una volta messi insieme e consegnata la raccolta nelle mani del mio editore, non ho scritto più nulla per mesi. Poi, il primo racconto a cui mi sono messo a lavorare è stato Cattedrale, che a mio parere è completamente diverso da qualunque altro io avessi mai scritto prima, sia per come l’ho pensato sia per come l’ho realizzato. Suppongo che rifletta il cambiamento avvenuto nella mia vita, oltre che nella scrittura. Mentre scrivevo Cattedrale sentivo questa urgenza e pensavo, Ecco di cosa si tratta, ecco la ragione per cui faccio quello che faccio. Era diverso dai racconti precedenti. C’è stata un’apertura quando ho scritto quel racconto. Sapevo di aver percorso la strada fino in fondo nell’altra direzione, fino al punto in cui avevo voluto, raggiungendo il midollo, non l’osso. Ancora un altro passo in quella direzione e mi sarei trovato in un vicolo cieco – scrivendo e pubblicando cose che io per primo non avrei voluto leggere, detto con tutta sincerità. In una recensione al mio ultimo libro qualcuno mi ha definito uno scrittore “minimalista”. Il recensore lo ha inteso come un complimento. Ma non mi è piaciuto. C’è qualcosa nel termine “minimalista” che sa di ristrettezza di visione e realizzazione, e non mi piace. Ma tutti i racconti inclusi nel nuovo libro, quello intitolato Cattedrale, li ho scritti nell’arco di diciotto mesi; e in ciascuno di essi sento questa differenza.
Lei ha la percezione di un suo pubblico? Updike ha descritto il suo lettore ideale come un giovane ragazzo di una piccola cittadina del Midwest che trova uno dei suoi libri sullo scaffale di una biblioteca.
È bello pensare al lettore che ha idealizzato Updike. Ma fatta eccezione per i primi racconti, non credo sia un giovane ragazzo di una piccola cittadina del Midwest a leggere Updike. Cosa potrebbe capire il giovane ragazzo del Centauro, di Coppie o del Ritorno di Coniglio o Il colpo di Stato? Credo che Updike scriva per il pubblico per il quale diceva di scrivere Cheever — un pubblico adulto di “uomini e donne intelligenti”, ovunque essi vivano. Ogni scrittore che si rispetti scrive al suo meglio e spera in un pubblico più ampio e recettivo possibile. In pratica, si scrive al meglio delle proprie capacità e ci si augura di avere dei buoni lettori. Ma credo anche che si scriva per gli altri scrittori, da un certo punto di vista – per gli scrittori scomparsi di cui stimi le opere, e per quelli vivi che ami leggere. Se il tuo lavoro viene apprezzato da altri scrittori, allora ci sono buone possibilità che anche altri “uomini e donne intelligenti” possano apprezzarlo. Ma durante la fase della scrittura vera e propria, non ho in mente quel ragazzo di cui si parlava, come non ho in mente nessun altro, in realtà.
Alla fine quanto butta via di ciò che scrive?
Molto. Se la prima stesura ammonta a quaranta pagine, alla fine in genere ne resterà circa la metà. E non si tratta solo di togliere o ridurre. Tolgo molto, ma aggiungo anche alcune cose e poi ne aggiungo delle altre e ne elimino delle altre ancora. È una cosa che amo fare, aggiungere e togliere le parole.
È cambiato il processo di revisione, ora che i racconti sembrano essere più lunghi e generosi?
Generosi, sì, è la parola adatta a descriverli. Sì, e vi dico perché. A scuola c’è una dattilografa con una di quelle macchine da scrivere spaziali, un computer, e quando le do un racconto da battere lei poi me lo restituisce stampato e mi ritrovo in mano la bella copia sulla quale posso fare tutte le correzioni che voglio per poi ridarglielo; e l’indomani mi ritrovo di nuovo in mano il mio racconto, e ancora una volta in bella. Così, posso fare ulteriori correzioni a mio piacimento, e il giorno dopo avrò di nuovo una bella copia pulita. È fantastico. Sembrerà una piccolezza, eppure mi ha cambiato la vita, quella donna con il suo computer.
Ha mai potuto prendersi una pausa dal doversi guadagnare da vivere?
Una volta, per un anno. Ed è stato un anno molto importante per me. Avevo scritto gran parte dei racconti della raccolta Vuoi star zitta, per favore? Era il 1970 o il 1971. Lavoravo per una casa editrice di libri di testo a Palo Alto. Era il mio primo lavoro da colletto bianco, subito dopo quello di custode all’ospedale di Sacramento. Stavo lavorando in tutta tranquillità come redattore quando la società, si chiamava SRA, decise di mettere a punto una riorganizzazione. Avevo in mente di andarmene, e stavo scrivendo la lettera di dimissioni, ma poi all’improvviso — mi licenziarono loro. È stato meraviglioso che sia andata così. Invitammo tutti i nostri amici quel fine settimana e organizzammo una festa di licenziamento! Per un anno non avrei dovuto lavorare. Riscuotevo i sussidi di disoccupazione e avevo la liquidazione con la quale mantenermi. E in quel periodo mia moglie riuscì a laurearsi. È stato un momento di svolta. Un bel periodo.
Lei è religioso?
No, ma devo credere nei miracoli e nella possibilità della resurrezione. Non ho alcun dubbio al riguardo. E sono felice di svegliarmi ogni giorno. Per questo mi piace farlo presto. Nei giorni in cui bevevo dormivo fino a mezzogiorno o giù di lì e mi alzavo con la tremarella.
Ha dei rimorsi rispetto alle cose che sono successe in quel periodo così buio?
Non posso cambiare le cose ormai. Non posso permettermi di avere rimorsi. Quella vita è semplicemente andata, e non posso avere rimorsi per ciò che è passato. Devo vivere il presente. La vita di allora non esiste più — la sento distante come se fosse una cosa letta in un romanzo dell’Ottocento. Non passo più di cinque minuti al mese pensando al passato. Il passato è un paese straniero, e nei paesi stranieri fanno le cose in modo diverso. Le cose accadono. In realtà ho come l’impressione di aver vissuto due vite diverse.
Potrebbe dirci qualcosa riguardo alle influenze letterarie, o fare i nomi degli scrittori che ammira di più?
Ernest Hemingway è uno di questi. I primi racconti. “Grande fiume dai due cuori”, “Gatto sotto la pioggia”, “Tre giorni di vento”, “Il ritorno del soldato” e molti altri.
Čechov. Penso sia lo scrittore che in assoluto ammiro di più. Ma a chi non piace Čechov? Mi riferisco ai suoi racconti in questo caso, non al teatro. Le sue opere teatrali sono troppo lente per me. Tolstoj. Tutti i suoi racconti, le novelle, e Anna Karenina. Guerra e pace no. Troppo lento. Invece La morte di Ivan Il’ič, Padrone e servo, “Di quanta terra ha bisogno un uomo” rappresentano il miglior Tolstoj. Isaac Babel, Flannery O’Connor, Frank O’Connor. Gente di Dublino di Joyce. John Cheever. Madame Bovary. L’anno scorso ho riletto questo romanzo, Madame Bovary, oltre a una nuova traduzione delle lettere di Flaubert scritte durante la stesura dell’opera. Conrad. Too Far to Go di Updike. E poi ci sono dei meravigliosi scrittori che ho scoperto quest’anno come Tobias Wolff. La sua raccolta di racconti In The Garden of the North American Martyrs è semplicemente magnifica. Max Schott. Bobbie Ann Mason. L’avevo nominata? Beh, è brava e vale la pena nominarla due volte. Harold Pinter. V.S. Pritchett. Anni fa ho letto una cosa che mi colpì molto in una lettera di Čechov. Era un suggerimento rivolto a uno dei tanti che gli scriveva, qualcosa del genere: Amico, non devi scrivere di persone straordinarie che compiono atti straordinari e memorabili. (Capite bene, mi trovavo al college in quel periodo e leggevo drammi su principi e i duchi e sul sovvertimento dei regni al potere. Imprese epiche e cose del genere, tentativi titanici per rimettere gli eroi nei posti che gli spettavano. Romanzi con magnifici eroi) Ma leggere quello che scriveva Čechov in quella lettera e in altre, e poi i suoi racconti, mi fece vedere le cose in maniera diversa. Non molto tempo dopo ho letto una commedia e diversi racconti di Maxim Gorky, che nelle sue opere enfatizzava quello che diceva Čechov. Richard Ford è un altro ottimo scrittore. E principalmente un romanziere ma ha scritto anche racconti e saggi. È un amico. Ho molti buoni amici, e alcuni di loro sono dei validi scrittori. Altri un po’ meno.
In quel caso cosa fa? Voglio dire, come si comporta se un suo amico pubblica qualcosa che a lei non piace?
Non dico niente a meno che l’amico non mi chiede, e spero non lo faccia. Ma se te lo chiedono devi rispondere con tatto, in modo che l’amicizia non venga compromessa. Vuoi che i tuoi amici abbiano fortuna e che scrivano il meglio possibile. Ma a volte le loro opere sono una delusione. Vorresti che le cose andassero per il meglio, ma hai il terrore che questo possa non avvenire e che tu non possa fare niente per loro.
Cosa pensa della narrativa morale? Credo che questo ci porti a parlare di John Gardner e dell’influenza che questo autore ha avuto su di lei. So che è stato un suo insegnante molti anni fa all’Humboldt State College.
È vero. Ho scritto del nostro rapporto nel pezzo per Antaeus e ho approfondito la questione nell’introduzione a un suo libro postumo intitolato Il mestiere dello scrittore. Credo che On Moral Fiction sia un libro incredibilmente intelligente. Non concordo con tutto ciò che sostiene, nel modo più assoluto, ma tendenzialmente ha ragione. Non tanto nelle sue analisi sugli scrittori viventi quanto negli obiettivi e nelle ambizioni del libro. È un’opera che vuole affermare la vita, non distruggerla. La moralità secondo Gardner dà importanza alla vita. E in questo senso lui ritiene che la buona narrativa sia una narrativa morale. È un libro su cui discutere, per quelli a cui piace discutere. In ogni caso, è un testo geniale. Credo che riesca a sostenere molto meglio le sue idee nel Mestiere dello scrittore. Qui non attacca gli altri autori come fa in On Moral Fiction. Quando lo pubblicò ci eravamo persi di vista da diversi anni, ma la sua influenza, le cose che aveva rappresentato nella mia vita quando ero stato suo studente, erano ancora talmente forti che per molto tempo non ho voluto leggere quel libro. Avevo paura di scoprire che tutto ciò di cui avevo scritto in quegli anni fosse immorale! Dovete pensare che non ci eravamo visti per quasi vent’anni e che avevamo ripreso la nostra amicizia dopo che mi ero trasferito a Syracuse e lui stava a Binghamton, a poco più di un centinaio di chilometri di distanza. Quando On Moral Fiction uscì si scatenarono reazioni rabbiose nei confronti di Gardner. Toccava dei nervi scoperti. Io la ritengo un’opera davvero notevole.
Ma dopo aver letto il libro, cosa pensò? Che aveva scritto racconti “morali” o “immorali”?
Oggi stesso non ne sono sicuro! Ma mi era stato riferito da terzi, poi me lo disse lui stesso che gli piaceva quello che scrivevo. Soprattutto le cose nuove. E questo mi fa molto piacere. Dovreste leggere Il mestiere dello scrittore.
Scrive ancora poesie?
Qualcosa, ma non abbastanza. Vorrei scriverne di più. Se passa un periodo troppo lungo, diciamo sei mesi, senza che abbia composto qualche poesia, mi innervosisco. Mi ritrovo a chiedermi se ho smesso di essere un poeta o se ho smesso di essere in grado di scrivere poesie. È in quei momenti che solitamente mi metto alla prova. A primavera uscirà un libro, Voi non sapete che cos’è l’amore – raccoglie tutte le poesie che desidero conservare.
In che modo le due scritture si influenzano tra loro? Parlo di narrativa e poesia.
Non lo fanno più. Per molto tempo poesia e narrativa mi hanno interessato allo stesso modo. Nelle riviste sfogliavo prima le pagine delle poesie e poi leggevo i racconti. Alla fine, ho dovuto fare una scelta, e ha vinto la narrativa. È stata quella giusta per me. Non sono “nato” poeta. Forse non sono “nato” niente se non “maschio americano bianco”. Potrei diventare un poeta occasionale. E mi accontenterò di questo. Sempre meglio che non esserlo affatto.
In che modo la fama l’ha cambiata?
Quella parola mi mette a disagio. Vedete, ho cominciato con poche speranze — voglio dire, quanto si può pensare di ottenere dalla vita scrivendo racconti? E non avevo una grande autostima, a causa dei miei problemi con l’alcol. Quindi tutta questa attenzione è un continuo stupore per me. Ma devo dire che dopo l’accoglienza di Di cosa parliamo quando parliamo d’amore, ho provato una sicurezza che non avevo mai avuto prima. Tutte le cose belle che sono successe a partire da allora, hanno contribuito a invogliarmi a lavorare sempre di più e sempre meglio. È stato un grande stimolo. E tutto questo arriva in un momento della vita in cui sono più forte di quanto non lo sia mai stato. Capite cosa intendo? Mi sento sicuro e convinto della direzione in cui andare, ora come mai prima. Quindi la “fama” – o diciamo, questa nuova attenzione e interesse – è una cosa positiva. Ha dato sostegno alla mia sicurezza, proprio nel momento in cui ne avevo bisogno.
Chi è la prima persona a leggere quello che scrive?
Tess Gallagher. Come sapete, anche lei e poetessa e scrittrice di racconti. Sottopongo al suo giudizio tutto ciò che scrivo tranne le lettere, anche se qualcuna gliel’ho fatta leggere. Ha un occhio incredibile e riesce a entrare in quello che scrivo. Non le faccio vedere mai niente prima di averlo corretto e fatto tutto ciò che potevo. Di solito la quarta o la quinta stesura. Poi legge ogni altra versione, dopo. Fino a oggi le ho dedicare tre libri e non sono solo dediche in onore dell’amore e dell’affetto; dimostrano anche l’alta stima che ho di lei e sono un riconoscimento per l’aiuto e l’ispirazione che mi ha dato.
A che punto entra in azione Gordon Lish? So che è il suo editor alla Knopf.
Proprio qui, è stato l’editor che ha cominciato a pubblicare i miei racconti su Esquire nei primi anni Settanta. Ma avevamo un rapporto di amicizia che ci legava da tempo, dal 1967 o dal 1968, a Palo Alto. Lavorava per una casa editrice di libri di testo che si trovava dall’altra parte della strada rispetto alla casa editrice in cui lavoravo io. Quella che mi licenziò, per intenderci. Non aveva un orario di lavoro molto rigido. Lavorava principalmente a casa. E almeno una volta a settimana mi invitava da lui per pranzo. Lui non mangiava, ma cucinava per me e poi si metteva a gironzolare attorno al tavolo guardandomi mentre mangiavo. Mi metteva a disagio, potrete immaginarlo. Finivo sempre per lasciare qualcosa nel piatto e lui se lo mangiava. Diceva che aveva a che fare con la sua infanzia. Non è un esempio isolato. Ne fa ancora di cose del genere. Mi porta fuori a pranzo, non ordina niente per sé tranne da bere, e poi mangia i miei avanzi! Una volta gliel’ho visto fare alla Russian Tea Room. Eravamo a cena in quattro e dopo l’arrivo delle pietanze lui rimase a fissarci. Quando vide i nostri avanzi nei piatti, finì tutto lui. A parte questa sua follia, che lo rende divertente, è incredibilmente intelligente e sensibile alle esigenze del testo. È un bravo editor. Forse un grande editor. Quello che so per certo è che è il mio editor, ed un amico, e che sono felice di entrambi i suoi ruoli.
Pensa di lavorare ad altre sceneggiature?
Se il soggetto fosse interessante quanto quello a cui ho appena finito di lavorare con Michael Cimino sulla vita di Dostoevskij, sì, certo. Altrimenti, no. Ma Dostoevskij! Certo che lo rifarei.
E i soldi erano molti.
Sì.
Ecco spiegata la Mercedes.
Esatto.
Cosa ci dice del New Yorker? Ha mai mandato i suoi racconti al New Yorker quando ha cominciato a scrivere?
No, mai. Non leggevo il New Yorker. I racconti li inviavo alle riviste più piccole che di tanto in tanto accettavano qualcosa, e io ne ero felice. Avevo un mio pubblico, anche se non avevo mai incontrato nessuno dei miei lettori.
Riceve lettere da chi legge i suoi libri?
Lettere, audiocassette, a volte fotografie. Qualcuno mi ha appena mandato un nastro con delle canzoni tratte da alcuni dei miei racconti.
Scrive meglio sulla costa occidentale — a Washington — oppure qui a est? In pratica le sto chiedendo quanto è importante per il suo lavoro il senso di appartenenza a un luogo.
Una volta credevo fosse piuttosto importante sentirsi uno scrittore legato a un luogo. Era importante per me, e io volevo essere uno scrittore dell’ovest. Ora non vale più, nel bene e nel male. Mi sono spostato troppo, ho vissuto in troppi luoghi, mi sono sentito dislocato e scombussolato perché oggi possa avvertire sotto di me solide radici che mi legano a un posto preciso. Se mai è capitato che io abbia consciamente ambientato una storia in un particolare luogo o periodo, e immagino di averlo fatto soprattutto nel primo libro, presumo che quel luogo sia stato il Nord-Ovest Pacifico. Ammiro il senso di appartenenza a un luogo che hanno altri scrittori come Jim Welch, Wallace Stegner, John Keeble, William Eastlake e William Kittredge. Esistono moltissimi bravi scrittori che ce l’hanno. Ma la maggior parte dei miei racconti non si svolge in un posto specifico. Intendo dire che potrebbero svolgersi in qualunque città, area urbana; qui a Syracuse ma anche aTucson, Sacramento, San Jose, San Francisco, Seattle, oppure a Port Angeles, Washington. E comunque, quasi tutte le mie storie avvengono in casa!
Lavora in un posto preciso della casa?
Sì, di sopra, nel mio studio. È importante avere un posto tutto mio. Passano molti giorni in cui teniamo il telefono staccato e il cartello “Niente visitatori” appeso fuori. Per molti anni ho lavorato al tavolo della cucina, o nel banco singolo della biblioteca, o anche fuori, in macchina. Questa stanza tutta per me è un vero lusso e una necessità ormai.
Va, ancora a caccia e a pesca?
Non molto ormai. Ogni tanto vado a pescare, d’estate pesco i salmoni se sono a Washington. Ma non vado a caccia, mi spiace dirlo. Non saprei dove andare! Forse potrei trovare qualcuno che mi ci porti, ma ancora non mi è capitato. Il mio amico Richard Ford è un cacciatore. Quando venne qui nella primavera del 1981 per un reading delle sue opere, con il ricavato andò a comprarmi un fucile da caccia. Da non crederci! E ci fece incidere: Per Raymond da Richard, Aprile 1981. Dato che Richard era un cacciatore, stava cercando di invogliarmi.
In che modo vorrebbe che i suoi racconti agissero sulle persone? Crede che la sua scrittura possa cambiare qualcuno?
Davvero non saprei. Ne dubito. Non direi che possano cambiare qualcuno nel senso più profondo. Magari nemmeno cambiarlo. Dopotutto, l’arte è una forma di intrattenimento, giusto? Sia per il creatore che per il consumatore. In un certo senso è come giocare a biliardo o a carte, o fare una partita a bowling — è solo una diversa, e direi più elevata, forma di divertimento. Non voglio dire che non implichi anche un arricchimento spirituale. Naturalmente c’è. Ascoltare Beethoven, passare qualche istante di fronte a un quadro di Van Gogh, leggere una poesia di Blake possono essere un’esperienza molto più profonda di quanto non lo siano giocare a bridge o farsi una partita di 220 punti a bowling. Arte è tutto ciò che si presume che sia. Ma l’arte è anche un divertimento superiore. Sbaglio a pensarla così? Non lo so. Ma ricordo quando avevo vent’anni e leggevo le commedie di Strindberg, un romanzo di Max Frisch, l’opera di Rilke e ascoltavo per una notte intera la musica di Bartók, o guardavo uno speciale in tv sulla Cappella Sistina e Michelangelo. In tutti questi momenti sentivo che la mia vita doveva cambiare dopo queste esperienze, non poteva che subirne l’influenza e cambiare. Non era possibile non diventare un’altra persona. Ma poi, dopo non molto, mi rendevo conto che la mia vita, dopotutto, non sarebbe cambiata. Non in modo visibile, chiaro. Capii allora che mi sarei dedicato all’arte soltanto quando avrei avuto il tempo per farlo, il giorno che me lo sarei potuto permettere, tutto qui. L’arte era un lusso e non avrebbe modificato né me né la mia vita. Suppongo di essermi reso conto della dura verità, che l’arte non fa succedere niente. No. Non credo neanche per un istante in quell’assurda sciocchezza shellyana che vuole i poeti siano “i legislatori non riconosciuti” di questo mondo. Che idea! Isak Dinesen ha detto che scriveva un pochino ogni giorno, senza speranza e senza disperazione. Mi piace. I giorni in cui un romanzo o una commedia o un libro di poesia potevano cambiare le idee della gente riguardo al mondo in cui vivevano o riguardo a loro stessi non esistono più, sempre che siano mai esistiti. Magari scrivere certa narrativa che ritrae determinati tipi di persone che vivono un certo tipo di vita può essere utile per comprendere meglio alcuni aspetti della vita. Ma temo non ci sia altro, almeno per quanto mi riguarda. Forse per la poesia è diverso. Tess ha ricevuto lettere di persone che sostenevano che le sue poesie le avevano salvate impedendogli di buttarsi giù da una scogliera o dall’annegamento. Ma è una cosa differente. La buona narrativa porta le notizie da un mondo all’altro. Ed è un fine valido di per sé, direi. Ma cambiare le cose, modificare l’orientamento politico di qualcuno o il sistema stesso, salvare le balene o le sequoie, beh, questo no. No, se i cambiamenti di cui parlate sono questi. E ad ogni modo non credo nemmeno che abbia il dovere di occuparsi di tutto ciò. Non ha il dovere di fare assolutamente niente. Deve esistere per l’enorme piacere che dà a chi la produce, e per il diverso tipo di piacere che dà a chi legge qualcosa che resiste e che è eterno, e che è bello fuori e dentro di sé. Qualcosa che scateni queste scintille – una luminosità persistente e stabile, per quanto fioca.

Numero 88, 1983

BIOGRAFIA–
Raymond Carver (1938-1988) è nato a Clatskanie, nell’Oregon. A vent’anni si trasferì in California e si iscrisse a un corso di scrittura tenuto da John Gardner, che contribuì a fargli sviluppare il suo stile scarno, spesso definito minimalista. Frequentò un anno postlaurea presso l’Iowa Writer’s Workshop. Nel 1971 l’Esquire pubblicò il primo di una lunga serie di suoi racconti. La sua prima raccolta. Vuoi star zitta, per favore (1976) fu un successo di critica che venne seguito da Furious Seasons and Other Stories (1977). Le due successive raccolte, Di cosa parliamo quando parliamo d’amore (1981) e Cattedrale (1983) lo consacrarono come maestro del racconto. Negli anni Ottanta pubblicò tre libri di poesie – Racconti informa di poesia (1985), Blu oltremare (1986) e Il nuovo sentiero per la cascata (1989), uscito postumo. La sua ultima raccolta di racconti è Se hai bisogno, chiama. Lewis Buzbee è autore di Fliegelmans Desire, After the Gold Rush, The Yellow Lighted Bookshop e Steinbeck’s Ghost. Vive a San Francisco con la moglie e la figlia. Mona Simpson, collaboratrice di The Paris Review, è autrice di quattro romanzi: Anywhere But Here (1987), The Lost Father (1992), A Regular Guy (1996) e Off Keck Road (2000), candidato al PEN/Faulkner Award.