Joseph Nye e Umberto Gentiloni, Ia Stampa 14/10/2012, 14 ottobre 2012
I MISSILI RUSSI INFIAMMANO LA GUERRA FREDDA
[Nell’ottobre di 50 anni fa la tensione salì alle stelle e si arrivò a un passo dal conflitto nucleare] –
Questo mese segna il 50 ° anniversario della crisi dei missili di Cuba - quei 13 giorni nel mese di ottobre 1962, che furono probabilmente il momento in cui il mondo andò più vicino a una grande guerra nucleare. Il presidente John F. Kennedy aveva pubblicamente diffidato l’Unione Sovietica dall’introdurre i missili offensivi a Cuba. Ma il leader sovietico Nikita Kruscev aveva deciso di attraversare surrettiziamente la linea rossa tracciata da Kennedy e di mettere gli americani di fronte al fatto compiuto. Quando un aereo di sorveglianza americano scoprì i missili, scoppiò la crisi.
Alcuni dei consiglieri di Kennedy sollecitarono un attacco aereo e l’invasione per distruggere i missili. Kennedy mobilitò le truppe, ma prese tempo, anche, annunciando un blocco navale su Cuba. La crisi si placò quando le navi sovietiche che trasportavano altri missili tornarono indietro e Krusciov accettò di rimuovere i missili già installati dall’isola. Come disse l’allora Segretario di Stato Dean Rusk: «Siamo stati faccia a faccia, e credo che l’altro abbia appena sbattuto le palpebre».
A prima vista, un risultato razionale e prevedibile. Gli Stati Uniti avevano un vantaggio di 17-a-1 nell’armamento nucleare. I sovietici erano letteralmente disarmati. Eppure gli Stati Uniti non attaccarono preventivamente i siti missilistici sovietici, che erano relativamente vulnerabili, perché il rischio che anche solo uno o due dei missili sovietici colpissero una città americana era sufficiente a dissuadere da un primo attacco. Inoltre, sia Kennedy e Krusciov temevano che le strategie razionali e la cautela nei calcoli potessero sfuggire al controllo. Krusciov ne offrì una vivida metafora in una delle sue lettere a Kennedy: «Noi e voi non dovremmo tirare troppo le estremità della corda a cui è stato legato il nodo della guerra».
Nel 1987, ho fatto parte di un gruppo di studiosi che si incontrarono alla Harvard University, con i consiglieri ancora vivi di Kennedy per studiare la crisi. Robert McNamara, segretario alla Difesa di Kennedy, disse che via via che la crisi si evolveva diventò più cauto. A quel tempo pensava che la probabilità di una guerra nucleare dovuta alla crisi avrebbe potuto essere una su 50 (anche valutò il rischio come molto maggiore dopo aver appreso nel 1990 che i sovietici avevano già consegnato le armi nucleari a Cuba).
Douglas Dillon, il segretario del Tesoro di Kennedy, ha detto che pensava che il rischio di una guerra nucleare fosse circa nullo. Non vedeva come la situazione avrebbe potuto subire un’escalation fino alla guerra nucleare e, quindi, era stato disposto a spingersi più in là con i sovietici e a correre maggiori rischi rispetto a McNamara. Il generale Maxwell Taylor, presidente dello stato maggiore congiunto, riteneva che il rischio di una guerra nucleare fosse basso, e lamentava che gli Stati Uniti avessero lasciato che l’Unione Sovietica se la cavasse troppo facilmente. Pensava che gli americani avrebbero dovuto rovesciare il regime di Castro.
Ma i rischi di perdere il controllo della situazione incisero pesantemente anche su Kennedy, che per questo adottò una posizione più prudente di quella che avrebbero voluto alcuni dei suoi consiglieri. La morale della storia è che un po’ di deterrenza nucleare rende molto.
Tuttavia, vi sono ancora delle ambiguità attorno alla crisi dei missili che rendono difficile attribuirne l’esito interamente alla componente nucleare. Gli Stati Uniti vinsero soprattutto il consenso pubblico. Ma, quanto abbiano vinto, e perché, è difficile da determinare. Ci sono almeno due possibili spiegazioni del risultato, oltre alla resa sovietica al maggior potere nucleare americano. Una si concentra sull’importanza della rispettiva posta in gioco delle due superpotenze durante la crisi: gli Stati Uniti non solo avevano maggior coinvolgimento con la vicina Cuba rispetto ai sovietici, ma potevano anche mettere in campo forze convenzionali. Il blocco navale e la possibilità di un’invasione degli Stati Uniti rafforzarono l’attendibilità della deterrenza americana, condizionando psicologicamente i sovietici.
L’altra spiegazione mette in dubbio la premessa che la crisi dei missili di Cuba sia stata una vittoria assoluta per gli Stati Uniti. Gli americani avevano tre opzioni: uno shoot-out , un rigore (bombardare i siti missilistici), uno squeeze out , ossia un’opzione (imporre il blocco a Cuba per convincere i sovietici a ritirare i missili), e un buyout , un investimento (dare ai sovietici qualcosa che loro volevano) .
Per molto tempo, i partecipanti hanno detto poco sugli aspetti di quest’ultimo punto della soluzione. Ma le prove successive suggeriscono che la silenziosa promessa degli Usa di rimuovere i loro missili obsoleti dalla Turchia e dall’Italia fu probabilmente più importante di quanto si pensasse in quel momento (gli Stati Uniti diedero anche pubbliche assicurazioni che non avrebbero invaso Cuba).
Possiamo concludere che la deterrenza nucleare pesò nella crisi, e che di certo la dimensione nucleare fu centrale nel pensiero di Kennedy. Ma non fu tanto il rapporto tra gli armamenti nucleari a contare quanto il timore che anche poche armi nucleari avrebbero causato una devastazione intollerabile.
Quanto sono stati reali questi rischi? Il 27 ottobre 1962, poco dopo che le forze sovietiche a Cuba avevano abbattuto un aereo di sorveglianza degli Stati Uniti (uccidendo il pilota), un aereo simile incaricato del prelievo routinario di campioni di aria vicino all’Alaska violò inavvertitamente lo spazio aereo sovietico in Siberia. Fortunatamente, non fu abbattuto. Ma, ancora più grave, all’insaputa degli americani, le forze sovietiche a Cuba erano state incaricate di respingere l’invasione degli Stati Uniti e per farlo erano state autorizzate a utilizzare le loro armi nucleari tattiche. È difficile immaginare che un tale attacco nucleare sarebbe rimasto solo tattico. Kenneth Waltz, uno studioso americano, recentemente ha pubblicato un articolo intitolato «Perché l’Iran dovrebbe ottenere la bomba». In un mondo razionale, prevedibile, tale risultato potrebbe produrre stabilità. Nel mondo reale, la crisi dei missili cubani suggerisce che potrebbe non essere così. Come diceva McNamara, «Abbiamo avuto una bella fortuna».
MA KENNEDY NON VINSE QUEL BRACCIO DI FERRO [Kruscev ritirò le postazioni sull’isola però ottenne una riduzione di armamenti Usa in Europa] –
Itredici giorni più caldi della Guerra fredda. La crisi dei missili di Cuba tiene il mondo col fiato sospeso dal 18 al 28 ottobre 1962. I fatti si conoscono, le ripercussioni e i retroscena sono emersi di recente. La flebile speranza della distensione internazionale sembra infrangersi quando l’Unione Sovietica posiziona missili nucleari strategici sull’isola caraibica: il suolo degli Stati Uniti non è lontano, il destino del pianeta non è al sicuro. Un ricognitore statunitense U2 in volo sullo spazio aereo cubano individua le basi con la presenza delle testate, i margini per evitare una deflagrazione bellica si stringono inesorabilmente. Come evitare uno scontro senza esclusione di colpi? Quale ruolo poteva giocare la diplomazia internazionale, a partire dai vertici delle superpotenze? Possibile che tutti i proclami su una possibile nuova fase delle relazioni internazionali non avessero ragioni o motivi per superare l’irrompere della crisi? Anche la Santa Sede si muove, prende posizione, partecipa all’offensiva diplomatica. Il Concilio Vaticano II era appena avviato; uno scontro nucleare avrebbe travolto tutto e tutti. Del resto sia Kennedy che Krusciov si erano impegnati a tracciare possibili scenari di collaborazione e dialogo.
Il piano sovietico era iniziato qualche mese prima; gli allarmi per le numerose rotte di navi dirette a Cuba non vennero raccolti dall’amministrazione Usa. I missili potevano minacciare la grande potenza statunitense con traiettorie anche inferiori ai venti minuti; le difese non erano pronte e sintonizzate su quel versante. Successivi voli di ricognizione confermarono la provenienza del pericolo, si cominciò a segnalare la presenza di basi operative; non si poteva perdere tempo, serviva un’iniziativa politica all’altezza della sfida.
La reazione statunitense merita attenzione. Inizialmente si scelse di non alzare il livello dello scontro. Le informazioni rimasero di stretto controllo degli organi di comando esecutivo. Il 22 ottobre il presidente Kennedy si rivolse alla nazione in un celebre appello televisivo; gli alleati più fidati vennero avvisati solo poche ore prima, molti lo appresero dai media. Il tono del messaggio era fermo e inequivocabile: la scoperta delle installazioni equivale a una minaccia esplicita; la direttrice da Cuba avrebbe condotto immediatamente le responsabilità dell’attacco alla potenza sovietica. Washington avrebbe reagito con Mosca di conseguenza. JFK chiedeva a gran voce lo smantellamento immediato delle basi mostrandosi pronto ad attuare il blocco navale dell’isola. Come emerso da documenti e studi recenti la scelta dell’amministrazione fu combattuta e avversata dai vertici militari che spingevano per una prova di forza immediata, una strategia di invasione per fermare chi aveva osato fino a tal punto. Kennedy e i suoi uomini scelsero la via diplomatica, con il rischio di non venirne a capo. Nei giorni delle trattative segrete, tra la scoperta dei missili e il messaggio alla nazione, il confronto si allarga fino a investire l’intero sistema bipolare. Si rafforza un nesso sistemico tra i missili sovietici a Cuba e la presenza di basi americane a medio raggio sul suolo di paesi Nato: Turchia e Italia su tutti. Un nesso forte, minaccioso che avrebbe innescato nel caso di un attacco anti sovietico, reazioni incontrollabili in altri teatri di guerra fredda.
Tra gli uomini di Kennedy si profila l’ipotesi di proporre una sorta di scambio che possa sconfiggere il vento della crisi: smantellamento della basi a Cuba da una parte, ridimensionamento della presenza Usa in Turchia e in Italia dall’altra. Non si arrivò alla formulazione dettagliata del baratto, ma la strada della pace passò molto vicina alle coste del nostro paese e alle dinamiche della presenza Nato nel Mediterraneo. Il finale è conosciuto: l’Unione Sovietica si ritira mentre il mondo tira un sospiro di sollievo. Nella soluzione della crisi pesa la scelta dell’amministrazione Kennedy: un impegno formale e segreto con l’Unione Sovietica fondato sul ritiro anticipato dei missili Jupiter dalla Turchia e dall’Italia. Poco importa se opinioni pubbliche e governi interessati rimasero all’oscuro della trattativa, la pace dopo tutto aveva vinto.