Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  ottobre 14 Domenica calendario

IL VENTENNIO DELL’UOMO VITTIMA DEL SUO POTERE

Forse più della mannaia dei leghisti colpisce il silenzio di quello che una volta era il suo mondo. Nessuno, a quanto pare, considera più difendibile Roberto Formigoni: neanche gli amici, i quali per tempo, ma inutilmente, gli avevano consigliato di cambiare frequentazioni e di abbandonare supponenza e ostinazione.

Finisce così, salvo colpi di scena (quando c’è di mezzo la Lega c’è sempre da aspettarsi di tutto) una delle più lunghe monarchie della democrazia italiana. Il vero ventennio della Seconda Repubblica non è stato infatti quello di Berlusconi, ma quello di Formigoni.

Il quale diventa presidente della Regione Lombardia, per la prima volta, nel 1995: solo un anno dopo la prima vittoria di Berlusconi alle politiche. Ma quando Formigoni si insedia al Pirellone, il Cavaliere è già stato fatto sloggiare da palazzo Chigi. Quando poi Formigoni, presumibilmente nell’aprile dell’anno prossimo, lascerà il suo trono, Berlusconi sarà lontano dal comando già da quasi due anni. E comunque: in questo ventennio Berlusconi a volte ha vinto e a volte ha perso le elezioni; a volte è stato al governo e a volte all’opposizione. Formigoni, invece, ha sempre vinto, anzi stravinto (quattro vittorie elettorali con la maggioranza assoluta) e ha sempre governato, sia pure su scala regionale.

In questa cronologia, probabilmente, c’è già la spiegazione di una parabola politica e umana. Per troppo tempo Formigoni è rimasto al potere: nello stesso potere. E quando si rimane troppo al potere, nello stesso potere, si finisce con il convincersi di essere infallibili, intoccabili, immortali. E si perde il contatto con la realtà.

Vedendo in questi giorni Formigoni sorridere ironico e spavaldo ai cronisti e alle telecamere, tornano alla mente i leader democristiani e socialisti di vent’anni fa, quando liquidavano i primi arresti di Di Pietro come gli avventurismi di un incauto che presto sarebbe stato trasferito a fare il vigile urbano a Gallarate. Solo un paio di anni dopo, e solo davanti alla bava alla bocca di Forlani al processo Enimont, quei politici (che pure erano vecchie volpi) tornarono sulla terra.

Quante volte il potente finisce con il credersi onnipotente. E cade. Rovinando anche il tanto di buono che aveva costruito. Perché Formigoni, in quasi quattro mandati da presidente, di cose buone ne ha fatte tante. Quando dice che «Regione Lombardia è un modello di buona amministrazione» (proprio così: «Regione Lombardia» senza l’articolo determinativo, come se fosse una persona: è il linguaggio dei manager, e lui è un presidentemanager), Formigoni certamente tira acqua al suo mulino, ma non dice una falsità. La Regione Lombardia marcia con molti meno dipendenti di tante altre. I suoi conti sono senz’altro più virtuosi. I suoi ospedali sono i migliori d’Italia.

Ma proprio perché il potere finisce con l’ottenebrare anche le menti migliori, Formigoni - l’ultimo Formigoni - è giunto a pensare che tutto gli sarebbe stato permesso. Passi per l’igienista dentale nel suo listino bloccato. Ma la giunta? In giunta Formigoni ha imbarcato di tutto. Cinque assessori finiti in manette non possono essere un caso: se un manager mette ai posti chiavi dell’azienda cinque disonesti, o cinque incapaci, vuol dire come minimo che ha perso il controllo.

E poi, mentre crescevano efficienza e potere cresceva anche, nell’uomo Roberto Formigoni, un’ambizione, una voglia di grandeur di cui la costruzione del mega-galattico Palazzo Lombardia è l’immagine più eloquente. Quanto diverso, il Formigoni di oggi, dal giovane barbuto che sembrava sempre appena uscito da un oratorio, e che iniziava l’attività politica non nascondendo - per non dire sbandierando - la sua scelta personale di vita, improntata a povertà e castità.

La politica come servizio: questa era la vocazione del Formigoni dei primi anni Ottanta. Quando cominciava a cercarsi uno spazio nella Dc con il suo Movimento popolare. C’erano, allora, meno di quattro soldi e vecchi uffici vicino alla stazione centrale di Milano, in via Copernico. A dargli una mano niente manager o consulenti d’immagine, ma un po’ di volontari, giovanotti accorsi per la Causa. Formigoni aveva contro i notabili del partito, che ne temevano l’ascesa, ma aveva dalla sua un piccolo popolo. Alle elezioni Europee del 1984 fu il primo degli eletti della Dc con 450.000 preferenze. Quando De Mita gli telefonò per complimentarsi, al centralino c’era una ragazza che rispose più o meno così: «Formigoni non può rispondere perché è in bagno». Ma un attimo dopo si corresse in questo modo: «Aspetti aspetti, sento che ha tirato lo sciacquone, adesso glielo passo».

Un altro secolo, un’altra galassia. Oggi Formigoni a Palazzo Lombardia ha un ufficio forse senza eguali in Europa. Praticamente tutto il trentacinquesimo piano. E l’eliporto. E una vista spettacolare per abbracciare tutto il suo regno. Il regno del Governatore (mai nessun presidente di Regione s’era chiamato così, prima di lui). Il regno del Celeste.

Sbaglia però chi oggi lo mette nello stesso calderone di molti altri politici finiti nel mirino della magistratura. Uomo sicuramente dotato come pochissimi, Formigoni è forse vittima di quel narcisismo che egli stesso ha recentemente riconosciuto. La sua metamorfosi - ahimè riconoscibile anche dalle orribili giacche colorate, dalle disgustose camicie a fiori e dagli imbarazzanti filmati che ha voluto mettere su You Tube - lo ha portato a credersi tanto infallibile da non ascoltare più nemmeno i vecchi amici di Cl.

Infatti anche pensare che Formigoni sia tutt’uno con Cl è una semplificazione, un errore. Invano lo avevano esortato a evitare, ad esempio, un certo Daccò. Invano gli è stato ricordato che don Giussani chiedeva, in politica, una «presenza»: non una «egemonia». Julián Carrón, il successore di don Giussani, in un’intervista al Corriere della Sera e in una lettera a Repubblica ha espresso concetti che Formigoni non ha recepito. Fino ad andare al Meeting - tra lo sconcerto di tutti - a informare che il Papa prega per lui.

Uomo che comunque non meritava un capolinea così, Formigoni cade senza realizzare il sogno del passo vincente da Milano a Roma. Cade anche per i suoi errori. Tocca a lui, adesso, sperimentare come passa la gloria di questo mondo.