la Repubblica, 14 ottobre 2012
L’ETÀ DELLA DISTRAZIONE
[Una volta ci si perdeva nelle fantasie. Oggi la tecnologia ha creato un nuovo fenomeno che ci fa inseguire tutto senza farci concentrare mai] –
ll primo telecomando è stato un fischietto. Lo ha inventato Albert Camus, nell’ultimo atto del suo
Caligola.
L’imperatore ha convocato alcuni poeti e ha concesso loro un minuto di tempo per comporre un carme sulla morte: «Ora verrete avanti. Io farò un fischio. Il primo comincerà a leggere. A un mio fischio, lui si fermerà e convincerà un altro. Così di seguito». Zap, zap. Dei primi sette poeti nessuno va oltre al primo verso; in un caso il fischio arriva quando il poeta non ha ancora aperto bocca e ha appena fatto in tempo a mettersi in posa declamatoria.
Caligola è attratto dalle alternative, o piuttosto nessuna offerta pare in grado di distrarlo da una sorta di apatia? Il suo è in realtà (cioè, nel dramma) un gioco crudele. A essere prede di noie e nausee esistenzialiste siamo invece noi che, mentre il dramma è in scena, in platea stiamo magari consultando
Twitter.
Lo scettro del (tele) comando ora lo ha in mano chiunque, e lo ha in mano sempre e ovunque. Non è un accessorio solo televisivo: è il mouse che clicca; il dito che scorre sul touch screen; il segnale acustico di un’agenda elettronica che ci ricorda un impegno, o un’intenzione; il tasto F5 che aggiorna la pagina web, la selezione random dell’iPod che monta come le viene sequenze dei brani che avevamo immesso chissà quando. Al ristorante, sotto uno schermo tv in funzione muta mentre l’audio diffuso in sala proviene da una radio commerciale, chiacchieriamo con i commensali dando
però un’occhiata discreta al flusso di sms, e-mail, whatsapp in arrivo e per ogni evenienza teniamo l’auricolare wireless del telefono calcato nell’apposito padiglione (quando si sente la simulazione dello squillo di un vecchio telefono, dieci mani diverse si dirigono verso altrettanti smartphone in tasca o borsa: più o meno tutti hanno scelto la stessa soneria).
Caligola di noi stessi, quando mai ci daremo, finalmente, retta?
Il mondo ha un fondo grigio, come sempre. Solo che non è il grigio del vuoto o del vetusto: è il grigio in cui si spalma in modo uniforme il pieno, il nuovo. Persino il rilevante e l’urgente non sono più categorie di primissimo piano. È urgente? Ci penso poi. Qualcosa arriva sempre a distrarci dalle cose più gravi, da quello che vogliamo fare, persino da quello che amiamo fare.
Chiunque abbia visto un bambino alle prese con un iPad o abbia parlato a gruppi di adolescenti sa che la velocità con cui l’attenzione sostituisce i suoi oggetti è vertiginosa. Ma ci si illuderebbe pensando che il fatto riguardi solo adolescenti, magari attardati, venuti su con playstation e Game Boy. Che si possa fare una cosa alla volta, e una sola, pare un arduo obiettivo per chicchessia.
O multitasking o imbambo-lati: non sembra facile né sfuggire alla deprimente alternativa né decidere se ciò che ci impedisce di concentrarci sia uno stimolante o un narcotico. Gli esiti delle primissime ricerche qualitative di mercato meravigliarono Vance Packard, che poi ne parlò nei
Persuasori occulti
(il libro che Edoardo San-
guineti considerava «il vero trattato di estetica del Novecento »). Registrando il battito delle palpebre delle casalinghe all’ingresso di supermarket e grandi magazzini invece che l’attesa accelerazione tipica degli stati iper-eccitati si riscontrava un rallentamento. I “paradisi delle dame” di cui aveva parlato Émile Zola sono dunque ipnotici: di lì, packaging a colori sgargianti per attrarre la mano delle quasi-sonnambule che si aggirano fra gli scaffali. Dopo cinquant’anni e più, l’uomo accasciato sul divano con il telecomando in pugno ha il pollice tanto ipercinetico quanto la mente è catalettica.
Il fenomeno preoccupa gli psicologi che fanno quelle loro indagini che piacciono ai giornali americani: cercano so-
stanze e prove “scientifiche” del funzionamento materiale, a base organica, della nostra attitudine a compulsare Internet e social network (fortemente sospettata la dopamina). Il
New York Times
ha pubblicato statistiche sulla “Screen Generation” (“generazione” sembra essere un termine chiave per parlare sia della tecnologia sia di chi la adopera), sul calo generale di attenzione che mette a rischio la lettura lineare e fatalmente “lenta” di libri e giornali. Le preoccupazioni che Platone manifestava sulla possibilità che la scrittura ci facesse perdere la memoria si ripetono ora a proposito di computer e Internet (Nicholas Carr,
Is Google making us stupid?).
Il fatto è che, quale che sia il grado di urgenza e rilevanza di
ciò che stiamo facendo, non è che i diversivi ci capitino, come fossero colpi di citofono di ospiti indesiderati. A cercarli, molte volte siamo noi stessi, partendo da qualche zona della nostra volontà su cui non abbiamo un grande controllo. È la zona delle dipendenze.
Ad accorgersi che a orientare l’attenzione non è l’io, ma non è neppure qualcun altro o qualcos’altro, e a sgomentarsene, sono innanzitutto coloro la cui attività più dipende dalla capacità di concentrarsi. Così sono sorte applicazioni che hanno nomi (un po’ da pannolone mentale) come Freedom e Self Control le quali inibiscono l’accesso a Internet e alle e.mail. Hanno dichiarato di utilizzarle scrittori come Nick Hornby, Dave Eggers, Naomi Klein, Zadie Smith. Nati fra la
fine dei Cinquanta e la metà dei Settanta appartengono tutti alla fascia d’età che ha vissuto la svolta mediale come una progressiva (e sempre più frenetica) immersione; ma che ha anche ottimi ricordi dell’epoca in cui l’Intrattenimento non era continuo, bensì ben delimitato nel tempo e nello spazio. Le migliori osservazioni al proposito sono venute dal più acuto e dotato dei loro coetanei, David Foster Wallace, il quale ha dedicato due dei suoi tre romanzi e molti dei suoi altri scritti alla complicata dinamica che intercorre fra attrazione e distrazione di massa.
«La monotonia astrusa è uno scudo molto più efficace della segretezza». Nel suo romanzo postumo,
Il re pallido,
Wallace immaginava che un complotto si annidasse nei più
minuziosi regolamenti fiscali americani, testi in cui nessuna intelligenza umana può addentrarsi senza procombere presto, abbattuta da un tedio schiacciante. Perché, si chiedeva Wallace, la noia è un impedimento così efficace all’attenzione? Una persona che eventualmente sia immune dalla noia sarebbe automaticamente candidata a imperare sul mondo: altro che Caligola.
«La distrazione è l’attrazione per il rovescio del mondo». Lo ha detto Octavio Paz, ed è diventato il motto di Julio Villanueva Chang (lo ha appena dichiarato a Stefania Parmeggiani,
Repubblica- Cult,
7.10.2012). Chang è fondatore, direttore e guru del mensile peruviano di reportage vivaci e sorprendenti
Etiqueta negra.
È nota come “la rivista per i distratti”.
Chang ha anche precisato: «Essere distratti non significa necessariamente essere indifferenti a quel che accade, ma al contrario essere concentrati su qualcosa che per te è importante». Era quello che Wallace insegnava agli studenti: c’è sempre la possibilità di scegliere ciò da cui vogliamo farsi assorbire, ciò che vogliamo venerare, perché chiunque venera qualcosa (un dio, il potere, il danaro, il corpo, l’intelligenza): ma non tutti sono consapevoli di avere scelto ciò che lo distrae da tutto il resto. Solo chi ha studiato, chi ha pensato, chi non si è immerso definitivamente nei flussi obliosi dell’Intrattenimento, però, è in condizione di sapere che la scelta di ciò che lo intrattiene è sempre e soltanto sua.