la Repubblica, 14 ottobre 2012
LE PRIMARIE NEL NOME DEL PADRE
DUNQUE, si apre un cassetto e in un pulviscolo di polvere e di nostalgia ne esce l’album di famiglia di Bersani, che oggi parte per le primarie dal suo paesino, Bettola. ELÌ farà emblematica, sintomatica ed evocativa sosta sulla piazzola del distributore di benzina dove lavorava suo padre. Pier Luigi è il bambino più piccolo, ritratto a fianco del fratello, che ancora vive da quelle parti. Ma la figura chiave, insieme alla signora Bersani che appoggia due mani sulle spalle del futuro leader, è quella di “Pinu”, benzinaio e meccanico, con quella sciarpa e il cappellone da frontiera appenninica.
La fotografia, metà anni 50, è tanto bella quanto lontana nel tempo. Più del quadro di Hopper che lo staff bersaniano ha impercettibilmente corretto e scelto come manifesto promozionale (“Tutti a Bettola!”, piccolo grande evento in Val Nure), la povera essenzialità della stazione di servizio e ancora di più quel gruppo di famiglia incastonato fra le due colonnine della Esso raccontano bene un’Italia nella quale prevaleva la forza delle radici, la dignità del lavoro, la fiducia nel futuro.
Anche le altre immagini — il pennino e il fiocco di quell’allegrissimo scolaro, la carta geografica “dono della Cassa di Risparmio” e una dozzina d’anni dopo le maglie dolcevita e i vestiti buoni dei due giovanottoni davanti al mobile buffet e controbuffet con specchio e statuina — fanno pensare a qualcosa che irrimediabilmente s’è perduto. Forse è il passato stesso, forse la speranza di “Pinu” e degli altri padri, comunque una storia antica che Bersani sente di dover raccontare.
L’altro giorno l’antagonista o come direbbe lui il
competitor
del segretario, insomma Renzi, era sulla copertina di
Chi:
insieme con il padre, ancora prestante, sebbene rottamabile per necessità
politica e famigliare. Rispetto al bianco e nero degli scatti di Bettola, le patinate illustrazioni del servizio del rotocalco trasmettevano l’inconfondibile energia professionale della pubblicità. Inseriti in un contesto
country,
fra simpatici cagnoni e splendidi ulivi, iper-naturali e gioiosamente spontanei come solo la più evoluta
tecnica è riuscita a renderli, padre e figlio Renzi si ritrovano attorno a una tavola studiatamente bio-rustica ricolma di ogni ben di Dio.
Va da sé che le due raffigurazioni, così come i due messaggi e plausibilmente i loro rispettivi target, distano mille miglia. Eppure, il dato impressionante e rivelatore è che sia Bersani che
Renzi si siano entrambi e simultaneamente rivolti alla figura del padre.
Non è una faccenda così scontata negli sviluppi simbolici del potere, questa di proporsi come figli. E anche senza aprire il capitolo Vendola, dove la figura dominante è semmai quella della madre (e infatti già variamente intervistata sui suoi leggendari
fritti come sui propositi politica-matrimoniali di Nichi), l’impressione è che il comune richiamo al padre abbia a che fare con le angosce del presente: la doppia crisi, quella economica e quella che sta spazzando via il sistema dei partiti; l’eventualità, per l’uno e per l’altro sfidante, di vincere sulle macerie dell’antipolitica o di perdere tutto per sempre. Tutto questo insomma sembra spingerli a voltarsi indietro verso quel modello di autorità, verso coloro che ce l’hanno fatta in nome della fermezza, dell’equilibrio, della repressione e dell’eventuale differimento dei desideri. Nel nome del padre, appunto. L’unica figura che dinanzi al baratro protegge, rassicura e offre vie d’uscita.
E naturalmente occorre resistere agli abusi che su questo terreno il potere in vario modo esercita. Ancora due o tre anni or sono, per dire, Berlusconi seguitava a proporsi come “un buon padre di famiglia”. Ma poi dalle vicende di cronaca e specialmente dagli esiti con la lentezza che accompagna questi complicati processi di percezione si
è capito che nell’immaginario italiano “Papi Silvio” in realtà era uno zio. Per l’esattezza, suggerisce Marco Belpoliti, questo preteso genitore aveva preso i tratti dello zio di cui scrisse Giorgio Manganelli nel “Mammifero italiano” (Adelphi, 2007): “Quella benevolenza chiassosa e anche un po’ sboccata, una tendenza a farsi complice di tutti gli altri”. Qualcuno che “non è propriamente dentro la famiglia, ma ha indosso un bizzarro odore di futuro e insieme qualcosa di più che un’inclinazione all’infantilismo”.
Ecco. Qui dentro pare di cogliere un’altra cifra della spaventosa regressione italiana. Così buffonesca e cinerea, viene da pensare, da richiamare il sapiente decoro, l’umile compostezza e la serena laboriosità di “Pinu”, meccanico e benzinaio, e di tutti gli altri padri che, dovessero mai tornare, non sarebbero per niente contenti.