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 2012  ottobre 14 Domenica calendario

IL BRIGANTE CHE SCONFIGGE LOMBROSO

Non è certo una novità che i resti umani rappresentino una potente risorsa simbolica. Capaci di aggregare una pluralità di significati, affettivi, religiosi, politici, scientifici, giuridici, i resti umani sono oggetti particolarmente instabili, destinati a mutare il loro valore d’uso nei diversi contesti sociali e storico-culturali. Caso esemplare, la richiesta di restituzione del cranio di Giuseppe Villella, esposto nel Museo di antropologia criminale «Cesare Lombroso» di Torino, da parte del comune calabrese di Motta Santa Lucia e del comitato «No Lombroso», divenuto caso giudiziario.
Solo una settimana fa, il giudice Gustavo Danise del tribunale di Lamezia Terme ha emesso un’ordinanza di restituzione, precedente inedito per l’Italia. Con uno scarto di molti decenni rispetto ad altri Paesi occidentali, l’Italia si scopre proiettata in un presente postcoloniale, popolato di comunità native, e impreparata ad affrontare la controversa questione della repatriation dei resti umani. Solo Adriano Favole, antropologo dell’Università di Torino e collaboratore della «Lettura», si è occupato delle «ossa della discordia», in un intervento pubblicato negli atti del convegno Dalla nascita alla morte: antropologia e archeologia a confronto, tenutosi al Museo Pigorini nel 2011.
Il coro di proteste di associazioni e movimenti «neomeridionalisti» contro l’inaugurazione del nuovo allestimento del museo «Lombroso», il 27 novembre 2009, colse di sorpresa i responsabili dell’istituzione. L’Italia è molto cambiata da quel 1985, quando il cranio del «brigante» Giuseppe Villella fu esposto nella Mole Antonelliana, in occasione della mostra «La scienza e la colpa». Centoventimila visitatori e nessuna manifestazione di dissenso. Giuseppe Villella allora non esisteva, se non come inerte reperto di una collezione scientifica.
Ma chi era Giuseppe Villella, prima di rinascere come simbolo della «riscossa dei terroni»? Sono andata in Calabria a cercarlo, a Motta Santa Lucia che, insieme al museo Lombroso e alla rete Facebook «No Lombroso», sono i luoghi della mia ricerca. Ho trovato il mito attuale del brigante o patriota che combatte contro l’invasione coloniale, ma non la memoria vivente di Villella. Per ricostruire la sua biografia ho dovuto attingere alle scarne e contraddittorie notizie che ci ha lasciato Lombroso. A partire dal verbale dell’autopsia eseguita il 16 agosto 1864, custodito nell’archivio Lombroso a Torino. La scoperta della prova scientifica dell’«atavismo criminale» attraverso l’esame della forma del cranio di Villella, bollato così quale «delinquente per nascita», è descritta come una rivelazione improvvisa nel grigiore dell’alba che preannuncia l’astro nascente dell’antropologia criminale. Se di rivelazione si tratta, come spiegare il lasso di tempo intercorso fra il 1864 e il 1871, anno della prima pubblicazione di Lombroso sulla fossetta occipitale mediana di Villella?
Per avvalorare il mito dell’autopsia rivelatrice gli allievi di Lombroso ne posticiperanno la data. Al 1870, perfino al 1872, nella biografia della figlia Gina. Il «depistaggio» si è tramandato in tutta la letteratura successiva. Anche dopo che lo storico Renzo Villa (Il deviante e i suoi segni, 1985) aveva segnalato le numerose varianti dell’aneddotica su Giuseppe Villella. A partire dall’età, che varia dai 60 ai 72 anni. Per non parlare poi dell’esame obiettivo delle caratteristiche fisiche. Il «brigante» calabrese, da tutto «stortillato» che era, nel susseguirsi delle stesure diviene agilissimo, come si conviene a un uomo «prossimo ai lemuri». L’unico elemento costante è la qualifica di ladro, per tre o quattro volte recidivo.
La data di morte del verbale dell’autopsia, trascritta con il lapis sul cranio conservato al museo, e la condanna per furto sembrano i dati più attendibili. Il primo documento è emerso all’Archivio di Stato di Catanzaro. Il 19 giugno 1844 la Gran corte criminale condannava Giuseppe Villella fu Pietro, di anni 35, di Motta Santa Lucia, a sei anni di reclusione per complicità in furto. Dall’esposizione dei fatti risulta che la notte del 29 luglio del 1843, Villella, con un complice, aveva sottratto a un possidente cinque ricotte, una forma di cacio, due pani e due capretti. Non si tratta, ovviamente, della sentenza che condurrà Giuseppe Villella a scontare la sua ultima pena nel carcere di Pavia.

L’arresto e il processo devono essere successivi al 1861, dopo l’annessione del Regno delle Due Sicilie. Ci vorranno ulteriori ricerche per trovare il documento dell’ultima condanna. Di fatto, una condanna a morte per tanti detenuti che venivano trasferiti a mille ottocenteschi chilometri di distanza dai loro familiari. Abbiamo il nome del padre, che risulta defunto all’epoca del processo, e un riscontro con le accuse di furto riportate da Lombroso, ma non tornano i conti con nessuna delle diverse età di Villella. Il condannato del 1844 avrebbe avuto 55 anni nel 1864. Le conferme dell’esistenza di un Giuseppe Villella sono emerse dall’archivio parrocchiale e dall’archivio comunale di Motta Santa Lucia. I genitori di Giuseppe Villella, Pietro e Cecilia Rizzo, si sposarono nel 1791 ed ebbero quattro figlie femmine. L’ultima, Maria Petruzza, pochi mesi dopo la morte del padre nel marzo del 1810. Giuseppe doveva avere allora non più di nove anni. Non avremo forse mai la sua data di nascita: l’archivio parrocchiale ha una lacuna che va dal 1802 al 1821, mentre i registri civili partono solo dal 1809. L’atto di morte ci dice che Pietro Villella faceva il pecoraro. Il 23 aprile del 1830 Giuseppe appare per la prima volta negli archivi. A 28 anni, di professione pecoraro come il padre, si sposava con Anna Serijanni. Nell’elenco dei documenti allegati si legge la formula «sulla fede di nascita dello sposo», a conferma dell’assenza di un atto di nascita o di battesimo. Da questo momento in poi, la sua cartacea storia di vita trascorre da un registro all’altro, dove si fissano le nascite dei suoi cinque figli: Maria Teresa, Nicola, Saveria, morta di parto nel 1868, Francesca, che morirà a soli quattro anni, e Angela Rosa.
Giuseppe non ricordava mai bene la sua età. D’altra parte, a quei tempi solo i re e i santi festeggiavano il compleanno. Nel 1839 dichiarava 31 anni. Nel 1848 registrava di persona la nascita di Francesca — segno che aveva ottenuto una sospensione della pena — e dichiarava di averne 45. Appena quattro anni prima, lo troviamo trentacinquenne sul banco degli imputati. Alla nascita dell’ultima figlia ne dichiara 50. Non è un caso di ostinata e plurima omonimia. Nell’elenco dei morti di Motta Santa Lucia, che parte dal 1801, c’è solo lui, Giuseppe Villella, figlio dei furono Pietro e Cecilia Rizzo, morto a 60 anni nel 1864. Nella serie archivistica «Atti Diversi», estratta da un polveroso magazzino a Motta Santa Lucia, il 26 agosto 2012, appare la trascrizione dell’atto di morte nell’Ospedale civile di Pavia, con un ultimo colpo di scena: la data è il 15 novembre del 1864 e non il 16 agosto, come riporta il verbale dell’autopsia. La storia incompiuta di Giuseppe Villella è ancora da scrivere, come la storia incompiuta degli italiani.
Maria Teresa Milicia
Ricercatrice di Antropologia culturale
all’Università di Padova