Roberto Calasso, la Lettura (Corriere della Sera) 14/10/2012, 14 ottobre 2012
IL MUSEO BAUDELAIRE
Baudelaire è il crocevia di Parigi, che è il crocevia dell’Europa, che è il crocevia dell’Ottocento, che è il crocevia di oggi. In lui convergono, da lui si diramano linee innumerevoli e aggrovigliate. Baudelaire lo ignorava e, se mai lo avesse percepito, si sarebbe camuffato per sfuggire all’incombenza. Tenace nella sua inerzia, nel suo delirio di procrastinazione, arroccato nella sua esacerbata dissimiglianza.
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Aveva perfettamente ragione Baudelaire quando scriveva alla madre che Mon coeur mis à nu avrebbe fatto «impallidire le Confessioni di Jean-Jacques». Non c’è mai, di fatto, in Baudelaire l’incresciosa insistenza sulla sincerità che grava su tutto Rousseau. E certamente Baudelaire non rischiava di cedere a quel certo «intenerimento nervoso che riempiva i suoi (di Rousseau) occhi di lacrime appena vedeva una bella azione che avrebbe voluto compiere». In Mon coeur mis à nu ogni frammento è una singola scossa dei nervi, che si brucia in poche parole. Ma quanto penetranti. Mai assistiamo al rimestamento di argomentazioni protratte in favore di se stesso. Baudelaire le fuggiva per un puro senso di tedio, e per una ripulsa innanzitutto estetica. Se ripeteva qualcosa, erano elenchi di regole di comportamento che innumerevoli volte aveva violato e presto sarebbe tornato a violare.
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Si può essere dichiaratamente religiosi e incapaci di preghiera. Si può essere apparentemente irreligiosi e capaci di preghiera. Baudelaire apparteneva a questi ultimi. È come se in lui convivessero un selvaggio, come allora si sarebbe detto, e un liturgista. Baudelaire praticava la preghiera molto spesso, e nelle sue forme più elementari, come richiesta veemente di qualcosa. O esasperata, per usura dei nervi. Ma sempre con pathos disarmante. Perfino nel quaderno dove elencava instancabilmente i nomi dei suoi creditori e i conti per guadagni ipotetici, si legge: «preghiera immediata prima della toilette» (che era lunga e accurata). In un foglio volante annota: «Vi raccomando le anime di mio padre e di Mariette». Il padre, quasi sconosciuto. Mariette, «la servante au grand coeur». In un altro foglietto, sotto la scritta: «Igiene. Condotta. Metodo», si trova: «Fare tutte le mattine la mia preghiera a Dio, deposito di ogni forza e di ogni giustizia, a mio padre, a Mariette e a Poe, come intercessori». In una lettera alla madre dell’aprile 1861 parla di un lungo periodo di attrazione per il suicidio. Ma aggiunge: «Allo stesso tempo, e durante tre mesi, per una contraddizione singolare, ma solo apparente, ho pregato! a qualsiasi ora (chi? quale essere definito? non ne so assolutamente nulla) per ottenere due cose: per me, la forza di vivere; per te, lunghi, lunghi anni».
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Delacroix, Flaubert, Degas: tre forme di sabotaggio sistematico del matrimonio. La motivazione più efficace venne data dal più spiritoso fra i tre, che era senz’altro Degas. Così la presentava a Vollard: «Avevo troppa paura di sentir dire da mia moglie, una volta finito un quadro: "È proprio carino come l’hai fatto"».
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All’inizio del Peintre de la vie moderne, come un pianista che si scioglie le mani con qualche arpeggio, Baudelaire accenna alle incisioni di moda di Pierre La Mésangère e, subito dopo, con disinvoltura, propone una definizione del Bello. Oscillazione dal particolare più effimero al cielo delle idee. La definizione proposta da Baudelaire non spicca, a prima vista, per novità e originalità: «Il bello è fatto di un elemento eterno, invariabile, la cui quantità è estremamente difficile da stabilire, e di un elemento relativo, circostanziale, che sarà, se si vuole, volta a volta o congiuntamente, l’epoca, la moda, la morale, la passione». Senza questo apporto, l’elemento invariabile della bellezza sarebbe «indigeribile, non apprezzabile, non adatto e non appropriato alla natura umana». Fin qui siamo ancora nell’ambito delle nobili ovvietà — o per lo meno delle idee che circolavano nell’aria del tempo. Non a torto è stato osservato che nell’Esquisse d’une philosophie di Lamennais si trova una distinzione simile — anche se più molle e timorata nello stile (Lamennais non avrebbe mai osato scrivere che la parte variabile del Bello è un «involucro divertente»). Ma un primo scarto peculiarmente baudelairiano si manifesta subito dopo: «Nell’arte ieratica (si intenda: l’arte arcaica), la dualità si fa vedere al primo colpo d’occhio; la parte di bellezza eterna non si manifesta se non con il permesso e obbedendo alla regola della religione a cui appartiene l’artista. Nell’opera più frivola di un artista raffinato che appartiene a una di quelle epoche che si usa definire troppo vanitosamente come civilizzate, la dualità si mostra ugualmente; la parte eterna della bellezza sarà al tempo stesso velata e espressa, se non dalla moda, per lo meno dal temperamento particolare dell’artista. La dualità dell’arte è una conseguenza fatale della dualità dell’uomo». Qui finalmente Baudelaire si mostra allo scoperto, con tutta la sua capacità di provocare. Innanzitutto la moda viene messa sullo stesso piano della religione arcaica. Entrambe sono il filtro attraverso cui deve passare la «bellezza eterna». E già questo è sconcertante, non solo perché si parla tranquillamente di opere frivole, ma perché la religione arcaica — quella che appena si cominciava a scoprire in certe sale del Louvre, fra gli Assiri e gli Egizi — viene messa in rapporto sia con la «bellezza eterna» sia con la moda. E non meno scandaloso era il riferimento al «temperamento particolare dell’autore». Come se l’idiosincrasia irriducibile del singolo (l’artista) diventasse la regola — e non già la natura o almeno la tradizione, come si era ripetuto per secoli. In poche righe Baudelaire preparava il terreno per un sommovimento generale. Ma era solo per introdurre uno scarto ancora più disorientante, che in forma di paralogismo si fa avanti nelle righe successive: «Se così vi piace, potete considerare la parte eternamente sussistente come l’anima dell’arte, e l’elemento variabile come il suo corpo. Per questo Stendhal, spirito impertinente, dispettoso, persino ripugnante, ma le cui impertinenze provocano utilmente la meditazione, si è avvicinato alla verità più di molti altri quando ha detto che il Bello non è che la promessa della felicità».
Con subdola amabilità, Baudelaire ci avverte subito che sta spingendo la sua provocazione ancora più avanti. E lo fa usando la maschera di Stendhal. L’impertinenza attribuita a Stendhal è quella che Baudelaire sta per mostrare introducendo nella trattazione del Bello un elemento che sino a quel momento le era rimasto estraneo: la felicità.
Roberto Calasso