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 2012  ottobre 14 Domenica calendario

LAS VEGAS D’ARABIA —

«Immagina!…». Voce carezzevole dello speaker. Musichetta, dissolvenze, mille luci nella notte araba. «Immagina come sarà questo sogno che diventa realtà!…». Lo spot più replicato sulle tv del Golfo è una coazione a immaginare che non ti molla dai maxischermi dell’aeroporto ai normoschermi dell’hotel. La trapanante pubblicità ai trapani che stanno edificando il complesso di Taj Arabia, l’Ottava Paccottiglia del mondo: un patrimonio artistico fai-da-te col nuovo Taj Mahal di Dubai che sarà affiancato dalla nuova Torre di Pisa di Dubai, che farà ombra alla nuova Tour Eiffel di Dubai, che svetterà sulla nuova Grande Muraglia di Dubai, che circonderà le nuove Piramidi di Dubai… Più che uno spot, un ossimoro: non si sogna proprio un bel nulla di fronte all’ultimo, gigantesco esempio d’architettura Frankenstein. Che falsifica il vero e certifica il falso. Che non sembra avere alcuna pretesa d’operazione culturale e si propone per quel che è: memoria fotocopiata.
Il Taj Mahal 2.0 sarà pronto in un paio d’anni, quando ce ne vollero venti per quello originale. Sarà quattro volte più grande e, al posto dei cenotafi, avrà un albergo da 300 stanze con annessi casinò, ippodromi, spa e compiacenti russe. Non farà da tomba per la moglie dell’imperatore, ma da primo talamo per le coppie in luna di miele. Non sarà il «castello in aria» che incantava Bayard Taylor, semmai un terreno investimento per «ammirare grandi opere tutte insieme!». Un miliardo di dollari, cento chilometri quadrati in marmi, fontane, nicchie, minareti, cupole, giardini, calligrafie coraniche e foglie di loto incise: tutto uguale, pantografato senza immaginazione, senza sogno.
Un’americanata, si diceva il secolo scorso. Un’arabata, diciamo degli emiri. Poco da aggiungere sui contenuti: Dubailand è un parco giochi e la replica del Taj Mahal, la pubblicizzata «nuova città dell’amore», solo un pallido facsimile dell’eros vero che nei serragli generò la storia del Taj Mahal originale, «una lacrima di marmo ferma sulla guancia del tempo» (Tagore). Niente di nuovo sotto il sole dei deserti kitsch: in principio fu la finta Venezia di Las Vegas, replicata all’infinito da Macao al Brasile, arricchita pure quella di piramidi, castelli e statue della libertà (in cambio il miliardario Adelson, quello che finanzia la corsa alla Casa Bianca di Romney, abbatté la storia vera del luogo: il mitico hotel Sands che aveva ospitato Sinatra e Sammy Davis). Oggi tocca ad arabi e cinesi, capaci di rifarsi le ville palladiane fra le baracche palestinesi di Nablus o i masi tirolesi in mezzo alle metropoli. «Un’ansietà culturale», per dirla con un’archistar come Rem Koolhaas: mostri che creano contrasto con l’ambiente circostante. Architetture che violano ogni copyright. «Perché quello che vedo in quasi tutti i sistemi — parole sempre di Koolhaas — è l’incapacità d’anticipare, smuovere e prendere iniziative sul futuro, 40 o 50 anni oltre, anche quando è evidente che le città cresceranno o si restringeranno rapidamente».
Chi non inventa, copia. O cita antichi sfarzi per celebrare quelli nuovi: non nacquero così anche i colonnati-meringa di Washington? E che altro furono gli splendidi palazzi toscani dello Chouf, in Libano, se non un copia&incolla del Granducato? A Dubai si va oltre. Gli emiri, scampati al disastro immobiliare 2008, tornano a investire petrodollari in opere che lascino il segno. Basta col grattacielo più alto e la mall più grande del mondo, però. Stop ai grandi architetti contemporanei: stavolta il capriccio sono i monumenti tarocchi, una collezione di bigiotteria architettonica. Gioiello d’una dinastia Moghul che dominava terre più estese dell’Impero Ottomano, in questo senso il Taj Mahal è perfetto, immediatamente riconoscibile: non ha bisogno che qualcuno vi scriva sul tetto «I am a monument», come Robert Venturi immaginava per le opere di Las Vegas. «Il Medio oriente si sente forse inferiore all’Europa — ipotizza Moti Bodek, della Bezalel Academy di Gerusalemme — e per questo ne deve copiare le forme». «Rifare il tale e quale priva l’edificio dell’aura del luogo, delle emozioni, del genius loci, ci ridà puri contenitori, copie senz’anima», dice Paola Liani, architetta italiana che da dieci anni lavora in Medio oriente: «Però, il concetto di copia come costruzione d’un luogo che viene riprodotto in un altro luogo potrebbe anche diventare un’opportunità: declinare l’architettura, variare il cliché». A Tel Aviv per esempio, «luogo di pseudomorfosi, misto di citazioni della Miami anni 80 e di vere copie come quella della casa newyorkese del rabbino Lubavich, dove gli edifici riprendono linguaggi d’altri luoghi e spesso cancellano la cultura urbana locale», Paola Liani con Itai Paritzki ha tentato una via diversa: rivedendo magari i codici del Bauhaus, nella «Non-visible House» del vecchio quartiere di Neve Tzedek, oppure proponendo il progetto d’un «Edificio Millefoglie» che reinventa i giardini verticali e il verde dei patii arabi adattato a una metropoli mediorientale.
Niente del genere, nel Golfo tendenza Las Vegas. Dove lavora un quarto delle gru di tutto il mondo. E dove il Taj Arabia, per quanto postmoderno, è un intralcio al grande mecenatismo che in questi anni ha mostrato opere ben più coraggiose, dalle Palm Islands di Dubai alla fabbrica Ferrari di Abu Dhabi, finite nei cataloghi delle Biennali. Già nel ’68, gli urbanisti di Yale capivano l’importanza di studiare il contemporaneo della Route 91 e d’«imparare da Las Vegas», perché Las Vegas era per loro quel che l’Europa medievale, Roma o la Grecia erano state per le generazioni precedenti. Ma Dubai? Se Manhattan e certa America sono state per l’architettura la Stele di Rosetta del XX secolo, si sperava che il Golfo potesse fare qualcosa in questo XXI. Di fronte al remake del Taj Mahal, la domanda si pone: la spinta propulsiva s’è fermata? Certamente no, risponderebbe Koolhaas, che pochi mesi fa portava Doha a modello: «Il Qatar è una città Stato che si sta reinventando a ogni livello. Queste città si propongono come macchine per l’emancipazione». E puntano al profitto del committente: prima impegnato a costruire cattedrali della finanza, ora più attento a far soldi coi turisti.

Il turismo, già. Quindici anni fa, Jan Morris lo considerava il principale responsabile del declino della realtà, perché incita le messinscene e incoraggia l’irrealtà. L’irreale Taj Mahal 2.0 è solo turismo, in fondo. E un giorno sarà un rudere, pure quello da recuperare e finalmente da ripensare. Potrebbe anche rivedere la sua funzione, come fu per l’Alhambra di Granada. O come accadrà prima o poi alla stupefacente Basilica di San Pietro edificata in Costa d’Avorio. O all’inutile Taj Mahal rifatto, più povero, in Bangladesh. Da sindaco, Massimo Cacciari s’arrabbiò molto nel vedere l’imitazione che Las Vegas faceva della sua Venezia. Qualcuno propose d’istituire una specie di marchio Doc a tutela delle bellezze, come si fa per l’olio toscano o la mozzarella di bufala. Qualcun altro lanciò tout court l’idea di bombardare tutte le piazze San Marco mal copiate nel mondo, mandandone gli architetti a processo per crimini contro l’umanità. Battaglia persa. A Dubai, sono già pronti a costruirsi un bel Colosseo nuovo di zecca. A fotocopiare un altro po’ di passato. Perché iniziare sempre da zero, diceva Wallace Stevens, alla fine porta alla sterilità.
Francesco Battistini