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 2012  ottobre 14 Domenica calendario

FOTO, LIBRI, RICORDI: ACCUMULO TUTTO

Non buttare via niente, niente, dicevano quei nonni appena usciti da una povertà congenita. Non buttare via niente era una pratica virtuosa, l’accumulo della formica che teme di riprecipitare improvvisamente nel secolare mondo della privazione. Il «tienilo che diventerà utile» innescava un riciclo spontaneo, ante «teoria della decrescita». Non buttare via niente dicono anche oggi i più chic e le norme comunali, perché tutto è riciclabile. Certo, riciclare richiede metri quadri di abitazione e, specie per coloro che promuovono la differenziata, domestici solerti nel dividere tappi e bottiglie, fogli e plasticoni, batterie e farmaci... ma non si deve buttare niente. Anche della memoria, oggi, non si butta via niente. Bastano dei giga in più sul pc, o una memoria esterna e puoi non buttare via nemmeno un file. Nemmeno uno! Tieni tutto: tesi di laurea, foto, email, appunti, rubriche, giochi, filmati in un crescendo fobico. Ogni computer è diventato un archivio, un memorizzatore sociale diffuso.

Infatti, non buttare via niente per gli psicologi si chiama disposofobia. Non è ancora, secondo i più, un disturbo da Dsm (il manuale dei disturbi mentali) sebbene alcuni già lo inquadrino come sintomo del disagio «ossessivo compulsivo». L’accumulo patologico o accaparramento compulsivo o la mentalità Messie o sindrome dei fratelli Collyer o... o... (non buttiamo via niente, nemmeno nelle classificazioni) è un disturbo mentale caratterizzato da un bisogno ossessivo di acquisire, senza mai buttare, una indefinibile quantità di beni e non-beni: cartacce, bottiglie vuote, sacchetti di plastica… C’è chi tiene bigliettini dei ristoranti, menù, biglietti dei treni, scontrini (non per la nota spese aziendale) come raccontano gli psicologi Randy O. Frost e Gail Steketee in un libro che enumera una serie di questi casi clinici (Tengo tutto. Perché non si riesce a buttare via niente, traduzione di Francesco Sanavio, Erickson, pagine 270, 15,50). C’è chi tiene talmente tutto che la sua vita supera la sublime frontiera del collezionista — un individuo patologico — e si trasforma in una gimcana di impedimenti: case in cui non ci si può muovere, cucinare, lavarsi; computer perennemente imballati perché troppo pesanti.

Il collezionismo è una delle pratiche storiche che mostra un’atavica paura per l’assenza di cose intorno a noi, la paura del vuoto, un’ansia che si placa solo quando si è circondati da libri, quadri, oggetti o sacchetti di plastica che sono transfert rassicuranti. E così, non buttare via niente, in barba al Dsm, è diventata una delle attività umane simbolo di riscatto: tengo, dunque sono. Entri nella dimora di un grande collezionista, che so, sir John Soane a Londra e ti tuffi nel più sublime degli horror vacui. Le pareti della casa del grande collezionista inglese di fine Settecento sono costellate di frammenti provenienti dall’Egitto, dalla Grecia, da Roma e da tutto il Levante. Il nostro Giovanni Belzoni scavava, scopriva il sarcofago di Seti I e Soane lo comprava e piazzava in mezzo alla sua sala. Poi, non contento, comprava tutto: stampe di Piranesi, pittura di paesaggio, incastrava tutto e progettava edifici in forma di rovina perché così si vedevano le tracce della storia e non si buttava via niente.
Come i collezionisti, gli scrittori sono abitanti borderline di questa sindrome dell’accumulo. Tanto che molti personaggi da loro creati ne soffrono. Sublimemente ne soffrono, e ci consegnano acrobatiche visioni della vita che non butta via niente e scappa dalla povertà e dalla morte riducendosi, per accumulo, in povertà e morte.
I due fratelli Collyer raccontati nel romanzo di Doctorow sono realmente esistiti e deceduti nel 1947 nella loro casa. Homer (nato nel 1881) e Langley (nato nel 1885) erano noti per il rifiuto di pagare le bollette e per la quantità di oggetti d’ogni tipo che accumulavano: avevano ammassato 180 tonnellate di oggetti, spazzatura e cose senza valore. La cinica società della cancellazione per ragioni up-to-date o di «pubblica igiene» (come stabilivano i trattati di fine Settecento da Francesco Milizia in poi) abbatté la loro casa, che sarebbe stata un sublime tempio dell’accumulo.
Ma anche quando gli scrittori hanno inventato i loro personaggi, questi ci hanno introdotto nella sublime vertigine del non butto via niente. È il caso di Mr Krook nella Casa desolata di Charles Dickens. Il misterioso Mr Krook vive in una vecchia bottega sovraccarica di stracci e bottiglie e muore per uno straordinario caso di autocombustione, una morte prodotta «dagli umori corrotti dello stesso corpo malvagio», scrive Dickens.
Ma il massimo dell’accumulo è quello del consigliere di Collegio Pavel Ivanovic Cicikov, che va in giro accumulando le anime dei morti. Una + una + una... non fa che acquistare a buon prezzo le anime dei servi della gleba morti dall’ultimo censimento e per i quali i proprietari continuano a pagare il testatico, e li stipa in una immaginaria proprietà. I servitori fantasma potranno essere ipotecati e generare un grosso capitale. Non butto via niente e divento ricco, ricco con i morti, come Nikolaj Vasil’evic Gogol’ ci racconta già nel 1842. Gogol’ s’ispirò a un fatto di cronaca.
Com’è sublime tenere tutto. Tengo tutto, perché sono un Homo sapiens appena emerso da ben 200 mila anni di povertà. Metto nel computer tutto... butterà via mio nipote (forse).
Pierluigi Panza