Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  ottobre 14 Domenica calendario

LE PAROLE CHE HANNO (RI)FATTO L’ITALIA

Abbiamo un rapporto distratto con le parole. Le adottiamo senza pensarci, ignorando che hanno una storia e una data di nascita, come fossero creature viventi. I vocabolari ne sanciscono l’entrata nel patrimonio comune della lingua, segnalandone spesso la profondità storica. Per esempio, prendete lo Zingarelli 2013, il monumento pubblicato da quasi un secolo dalla Zanichelli, e andate a spulciare i termini accolti nell’ultimo ventennio: avrete un quadro, attraverso le parole, dei cambiamenti del costume, della società, della tecnologia, della politica, perché la lingua, pur mantenendo salde le sue strutture, non fa che metabolizzare instancabilmente le novità, belle e brutte, del mondo.
Quello del lessicografo è un mestiere affascinante e complesso, deve guardare all’indietro per non dimenticare niente, ma insieme deve registrare il presente e tener d’occhio il futuro: valutare se un termine avrà la durata che gli fa meritare una presenza nel vocabolario. Mario Cannella, responsabile dal ’94 della revisione dello Zingarelli, è ben consapevole del suo compito: «Traghettare il patrimonio lessicale verso le giovani generazioni». Se gli si chiede com’è cambiato il nostro lessico negli ultimi decenni, risponde che «la velocità è diventata impressionante nella vita e ha un riflesso anche nelle parole, nel turbinio di vocaboli che circolano, moltiplicato dalla enorme quantità di massmedia che li veicolano». Serve selezionare. Non tutto si può accogliere, perché un vocabolario non è un’enciclopedia e non è neanche un registratore di cassa dei neologismi. Prendiamo, appunto, l’ultimo ventennio.
È superfluo ricordare che la fine del secolo scorso ha portato con sé una enorme quantità di parole nuove nate in ambito politico, grazie a Tangentopoli (vocabolo accolto nell’edizione Zingarelli 1993) e al declino della Prima Repubblica. Nel giro di pochi anni siamo stati sommersi da una nuova ondata lessicale senza precedenti, dialettalismi, gergalismi, neoconiazioni composte e innumerevoli —ismi che oggi usiamo anche a colazione: lumbard, buonismo, perdonismo, stragismo, malasanità, cerchiobottismo, doppiopesismo, semipresidenzialismo, par condicio, postfascista, malpancismo... Berlusconi lascia traccia anche nello scendere in campo, preso in prestito dall’area sportiva. Un’intervista a D’Alema riesuma un antico vocabolo napoletano, inciucio (originariamente usato come «chiacchiericcio», «pettegolezzo»), nobilitandolo (o declassandolo) a «pateracchio» sottobanco tra partiti. Dall’opposizione netta destra-sinistra nascono il terzismo (2002) e il terzista coniato per definire chi non sposa pregiudizialmente né il blocco di destra né quello di sinistra. E non è un caso che le foibe (1998) siano entrate nel lessico in tempi di più acceso revisionismo storico. Così non deve apparire strano che mentre si parla del lavoro in crisi nelle miniere sarde il vocabolario si preoccupi di integrare parole tecniche come decarbonizzazione e rinaturalizzazione. Anche l’attualità detta le sue leggi lessicali. Ma fino a un certo punto: se gli scilipotini hanno vissuto per fortuna una stagione breve tale da escluderne una dignità da Zingarelli, per i grillini, osserva Cannella, vale la pena aspettare.
La globalizzazione, presente in ambito psicologico sin dal ’56 per indicare il processo di sviluppo cognitivo dell’età infantile, estende il suo significato all’economia e trascina con sé nel vocabolario italiano centinaia di prestiti, a cominciare dagli aggettivi inglesi global (1993), glocal (1994), no global (2001), new economy (2001). Cultura globalizzata, lingua globalizzata. Dall’Oriente arabo arrivano l’intifada (1993), il talebano (1994), mentre il kamikaze lo si conosceva sin dalla Seconda guerra mondiale ma dal Giappone si è trasferito al terrorismo islamico. Dalle immigrazioni viene importato il burka (1999) e al kebab segue il romanesco kebabbaro (2003). Le parole migrano, anche all’interno: la lingua è glocal. E per restare nell’ambito gastronomico, il gusto diffuso della cucina regionale e dello slow food ha imposto negli ultimi tempi agli onori del dizionario nazionale piatti prima relegati in periferia: arrosticini e cazzilli, l’allorino, i plin e la culaccia.
Siamo già scivolati, come si vede, nel campo più generale del costume e della società, dove la rivoluzione riguarda soprattutto la tecnologia. E sarà un’altra ondata: da realtà virtuale (1994) a internet (1996). Passando per tutto l’armamentario anglo-americanizzante che ormai pronunciamo quotidianamente: email (1993), cliccare (1995), masterizzare (1999), mailbox (2001), chattare (2002) eccetera, in un crescendo inarrestabile fino all’iPad e all’iPod. Le innovazioni della telefonia portano il telefonino (già presente in Montale come innocente diminutivo: «si udì il suono del telefonino dalla portineria»), il cellulare, l’sms (1996), l’mms (2001) e il messaggino (2002), oggi in netto calo di gradimento.
Altre spinte e controspinte provengono dal costume: mentre gay è attestato sin dal 1959, lesbo e outing si rivelano al nostro vocabolario solo nel 1998, seguiti da unione di fatto (2000) e coming out (2001). Il mondo del lavoro inventa il mobbing (2001), i call center (2001), i cococo (2004). La medicina tira fuori il pillolo (1993), la mucca pazza (1997), il seno siliconato (1998), e in un solo anno (il 2000) l’aborto terapeutico, la fecondazione assistita e il viagra. Ben prima che l’Europa si unisca, il vocabolario crea l’euro (1997) per vedere l’effetto che fa, ma gli euroscettici nascono subito dopo (1999). «Il nostro compito — dice Cannella — è la ricerca dell’iceberg: scommettere sulle parole che rimangono. Migliorini per iceberg inventò isbergo e qualcun altro ghiaccione, ma non sono passati nel vocabolario, così come non è passato guardavia per guardrail. Dobbiamo evitare gli errori, cioè di inserire termini che dopo due o tre anni scompaiono dall’uso». Ci sono parole «in sonno» che ritornano, come inciucio, di cui si diceva: rottamazione entra nel dizionario nel 2000 con il significato letterale, ma ritrova una nuova vita metaforica con Renzi, che lo estende dall’automobile all’establishment del suo partito per farne un manifesto politico.
Ci sono poi le spinte giovanilistiche, su cui occorre cautela, ma non a tal punto da escludere karaoke (1993) o grunge (1994), cuccare o tamarro, cannare o sclerare, ormai consacrati dall’uso anche fuori dagli ambiti gergali. «Nella colata lavica quotidiana di neologismi — dice Cannella — dobbiamo fare un’operazione simile a quella che in ambito finanziario si chiama fixing: fissare una quotazione». Fissare la quotazione delle nuove parole nell’area della famiglia e dei suoi sommovimenti è meno difficile: la bigenitorialità e i divorziandi non vanno ignorati, e se le leggi italiane non riconoscono l’omoparentalità, al professor Zingarelli poco importa.
Paolo Di Stefano