Mariarosa Mancuso, la Lettura (Corriere della Sera) 14/10/2012, 14 ottobre 2012
CONTRO LE AIUOLE BENPENSANTI
Qualche anno fa le librerie erano invase da manualetti fermamente convinti che Platone fosse meglio del Prozac. I filosofi venivano scomodati (a volte importunati) per sostituirsi alle zie sagge, prodighe di consigli su ogni aspetto della vita quotidiana. Trascurando un dettaglio: a leggere le biografie, i pensatori non paiono la categoria più adatta a fornire consigli sensati. Per un Kant che faceva la passeggiatina igienica tutti i giorni alla stessa ora, c’era una schiera di disadattati sociali. Gente che non guardava dove metteva i piedi, cadendo nei pozzi mentre osservava le stelle.
Ora le librerie sono invase da manualetti fermamente convinti che un pezzo di terra da coltivare con zappa e cesoie sia meglio di Platone. Che i consigli sulla vita, sulla felicità, sull’amore e sulla vecchiaia non li dobbiamo più chiedere a Schopenhauer, titolare a sua insaputa di una collanina di self help uscita da Adelphi. Meglio rivolgersi ai giardinieri, dilettanti o professionisti. In mancanza, vanno bene anche gli orticultori. Di oggi, di ieri, oppure di fantasia.
Jorn de Précy, che campeggia sulla copertina di E il giardino creò l’uomo. Manifesto ribelle e sentimentale per filosofi giardinieri, non è mai esistito. Lo ha inventato Marco Martella, che si finge curatore del volumetto inglese risalente a un secolo fa (e ritrovato sporco di fango). In molti ci sono cascati, a dispetto della noterella in ultima pagina. Ma non era necessaria. Fanno da indizio frasi come «sono allergico alle moderne tecnologie», termini come «brodo primordiale», l’idea di una natura madre affettuosa e del giardiniere come ultimo poeta (cento anni fa la poesia non se la passava male come adesso). Altro campanello d’allarme, le parole di lode per le due uniche macchine non dannose per l’umanità, il proiettore cinematografico e il grammofono. E l’idea di «bellezza benefica», che abbiamo ritrovato tale e quale nel monologo tv di Adriano Celentano.
Marco Martella ha fondato a Parigi la rivista «Jardins, storia e letteratura sul tema dei giardini». L’editore di Jorn de Précy (Jorn come il giardiniere in una canzone che Bob Dylan compose ma non eseguì mai, sostiene il falsario) è Ponte alle Grazie, molto assiduo nel dissodare e concimare il terreno. Cominciò nel 2003, pubblicando L’orto di un perdigiorno di Pia Pera, che prima di ritirarsi in campagna con stivali e innaffiatoio aveva riscritto Lolita dal punto di vista della ninfetta (Il diario di Lo, 1999, gli eredi Nabokov non gradirono).
I tempi però non erano ancora maturi. I figli dei fiori erano ormai quasi nonni, e solitamente coltivavano piantine vietate dalla legge. Ora che i tempi sono maturi, Pia Pera tiene un blog intitolato «Orti di pace», nel senso del pacifismo e della pace interiore; ha pubblicato da Salani Giardino & Orto Terapia («coltivando la terra si coltiva anche la felicità») e firmato con Antonio Perazzi Contro il giardino. Dalla parte delle piante. Segno sicuro che tra i giardinieri-filosofi sono già cominciate le lotte intestine, le scissioni, le punzecchiature. Leggere per credere Giardini e no di Umberto Pasti (Bompiani): manuale di resistenza botanica snob dove si celebrano «i giardini del benzinaio».
Nel catalogo Ponte alle Grazie troviamo Il signor giardiniere di Frédéric Richaud, romanziere classe 1966 che racconta le aiuole, i frutti e gli ortaggi nella reggia di Versailles, prima della rivoluzione. Poco lontano, in fuga dal lusso di corte, Maria Antonietta si dilettava con la semplice vita campagnola, assistita da schiere di giardinieri (qualcuno si è mai chiesto quanto costa, per broccolo prodotto, l’orto di Michelle Obama?). Invecchiare in giardino è il titolo del memoir di Gian Lupo Osti. Prima, viene in soccorso il Diario intimo di una donna giardiniere suo malgrado, a firma Maria Grazia Cardani (Albatros). Si fa l’elogio delle erbacce, si celebra la pazienza del giardiniere. Per contorno, le decine di romanzi acchiappa-lettrici che hanno nel titolo fiori, foglie o limoni.
Dai diamanti non nasce niente. Storie di vita e di giardini è il bestseller di Serena Dandini (Rizzoli). Titolo rubato a De André, «dai diamanti non nasce niente / dal letame nascono i fior», e il furto continua nel supplemento domenicale che «Pubblico» dedica ai piccoli virgulti: «Pupù. Il giornale che fa nascere i fiori». Visto che i buoni non hanno vinto, ragiona Serena Dandini, prendiamo lezioni di vita dal giardiniere che semina, quindi in un raccolto futuro comunque spera. Conclusione: il giardinaggio, come una volta si diceva del privato, è politico. La rivoluzione si fa sul balconcino innaffiando i gerani (con un bel rovesciamento di prospettiva: in tempi meno lagnosi erano considerati fiori da piccola borghesia, se non da spregevole maggioranza silenziosa).
Pazienza per chi non ha il pollice verde, per chi ha piantato una rosa e se la ritrova infestata dai parassiti, per chi non ha intenzione di parlare alle piante, e allora per forza loro si rifiutano di crescere. Anche il giardino è una fede, e ogni prospettiva rivoluzionaria abbisogna di qualcuno da rieducare. Gli irrecuperabili che, come Nanni Moretti in Bianca, le piante le minacciano spazientiti — «Hai troppo sole? Poco sole? Cos’è che vuoi? Più acqua? Meno acqua? Perché non parli? Rispondi» — possono supplire con la teoria.
C’è da studiare la Breve storia del giardino di Gilles Clément, pubblicato da Quodlibet. E il Manifesto del terzo paesaggio, terzo come il «Terzo Stato» che scatenò la rivoluzione francese. Così riassunto dall’allieva giardiniera Dandini: «Gli spazi periferici devono ribellarsi alle aiuole private e benestanti abitate da ibridi dell’anima». Da notare l’uso maligno del termine ibridi, di chiaro stampo «siamo contro gli Ogm» (come se tutto quel che mangiamo, e anche le rose del giardino, non rientrasse nella categoria).
Gran spreco di citazioni illustri, quasi mai a proposito. Cicerone diceva «una biblioteca e un giardino è tutto quel che serve». Ma allora perché tra i due inneggiamo solo al giardino, che peraltro Cicerone faceva coltivare dagli schiavi? «Dobbiamo coltivare il nostro giardino», fa dire Voltaire al suo Candide, reduce da molti brutti momenti. Non era un elogio del giardinaggio, era un insulto all’ottimismo del collega Leibniz, convinto di vivere nel migliore dei mondi possibili. Basterebbe accettare le storture del mondo, e non ci sarebbe bisogno di consolarsi con la potatura. Basterebbe rinunciare a qualche corso di autostima, e non avremmo bisogno di una grandinata sulle petunie per imparare l’umiltà.
Mariarosa Mancuso