Alessandro Piperno con Bernardo Bertolucci, la Lettura (Corriere della Sera) 14/10/2012, 14 ottobre 2012
HAROLD PINTER MI HA INSEGNATO A RIALZARMI
Alla giovane assistente di Bernardo Bertolucci la scena del suo datore di lavoro steso sulla chaise longue, e di me al suo fianco, su una sediola, deve fare l’effetto di un paziente e il suo analista.
Del resto, nel corso della lunga conversazione, la vena intima ha preso il sopravvento. Bertolucci non ha voglia di parlare di carrelli e inquadrature. È nel soave stato d’animo di chi ha appena terminato un film. Se è vero che finire un film è l’esperienza più prossima al sublime, tanto più lo si può dire per quest’ultimo: c’è stato un momento, infatti — quando una sedia a rotelle si è frapposta tra lui e il suo lavoro (tra lui e la sua vita?) — in cui Bertolucci ha temuto che la trionfale carriera di cineasta fosse giunta al capolinea.
«Un giorno mi sono detto: "Ecco, Bernardo, è venuta l’ora di separarti dal cinema. Non farai mai più un film. Va be’, te ne starai qui nel tuo cantuccio a leggiucchiare e sonnecchiare come piace ai vecchi". Poi accadde qualcosa. Ricordo la grande impressione provata vedendo il discorso di accettazione del Premio Nobel di Harold Pinter. Non so se lo hai mai visto. Poverino, stava troppo male per andare a ritirarlo. E allora inviò all’Accademia una registrazione video. C’è lui sulla sedia a rotelle, elegantissimo, un plaid sulle ginocchia, che recita il suo speech: uno spietato attacco all’imperialismo americano. Che spettacolo trascinante, pieno di vita. A vederlo lì, in quelle condizioni ma così combattivo, ho provato sollievo».
«Il guaio è che cercavo di alzarmi. Tutta la mia vita era una spinta a rialzarsi in piedi: la fisioterapia intensissima, la piscina. Ma poi — e non so dirti in che momento e perché — ho imparato ad accettare (forse anche per via di Pinter, sai, lo conoscevo piuttosto bene) questa mia nuova condizione. Da allora è diventato tutto più facile. E ho ripreso a fare film. E ho capito che fare film è la sola terapia».
La naturalezza — lo dice la parola stessa — è il dono più prezioso che la natura possa concederti. E non c’è sostantivo più appropriato per descrivere Bernardo Bertolucci che parla di sé come parlasse di un altro nel soggiorno della casa a Trastevere in un bel mattino di ottobre. La «erre» blesa, il modo strascicato-melodioso di articolare le parole tradiscono le origini emiliane. Mentre gli inserti di parole francesi e inglesi raccontano deliziosamente il resto della sua storia. Infine c’è il gusto dell’autoparodia: Bertolucci pare sempre al di qua di quello che dice, un misto di pudicizia e buona educazione.
«Da qualche tempo mi sono un po’ chiuso in questa casa in cui abito da tanti anni e che amo moltissimo. Esco di rado e dunque girare questo ultimo film è stato molto molto divertente. Una situazione ideale. La mattina scendevo giù, salivo sulla mia sedia elettrica, traversavo il cortile e qualche garage, sbucavo alla fine di via Corsini, di fronte all’orto botanico, nello studio privato di Sandro Chia. Insomma in poco più di un minuto ero sul set. Come se il set fosse la dependance di questa casa. Una condizione perfetta. Per una volta sono riuscito a unire tutto: la vita e il set. Era come se anch’io, come il giovane protagonista del film, mi fossi chiuso nella mia cantina».
Io e te, il film tratto dal toccante romanzo di Niccolò Ammaniti, è una tranche de vie elegante, romantica e struggente. Un’incursione nella vita di due giovani protagonisti, fratello e sorella che quasi non si conoscono, costretti a convivere in un’angusta cantina. Ricorrono in miniatura temi e stilemi di Bertolucci. Anzitutto l’unità di luogo: dopotutto persino un kolossal epico come Novecento si svolgeva tutto nella medesima campagna emiliana.
«Mi piace cambiare, fare film diversi dai precedenti, provo sempre un po’ di malinconia nel vedere bravi colleghi che da un certo momento in poi si ripetono, sfornando film, per così dire, à la manière de soi-mê- me. Però non posso negare che ci sono cose nel mio cinema che ritornano. L’unità di spazio è tra queste. A pensarci Ultimo tango, L’assedio, The Dreamers, persino la Città Proibita de L’ultimo imperatore rivelano la passione per uno spazio unico. Ma è una cosa che capisco solo oggi. Per Io e te, invece, la scelta è stata dettata dalla mia condizione».
Poi c’è la morbidezza, l’eleganza, la grazia: con il passare dei minuti la squallida cantina si trasforma in un salottino accogliente nel quale si avrebbe voglia di trasferirsi.
«Ho sempre cercato di snidare il bello, ovunque si fosse andato a cacciare. Per riuscirci, devo immergermi totalmente nel lavoro. Quando giravo Il conformista mi sentivo un regista francese del ’36 o del ’37, al momento del Fronte popolare, gli anni mitici della giovinezza dei miei genitori. Documentandomi avevo scoperto che i parigini, negli anni Trenta, avevano capelli corti, sfumatura alta, il Borsalino in testa. Naturalmente pretesi che anche le comparse tagliassero i capelli e inforcassero il Borsalino. Eravamo a cavallo tra il ’69 e il ’70, e molti si rifiutarono. Si vergognavano di un taglio di capelli così fuori moda. Per me fu un vero problema. Credo che sia per via di questa passione per i dettagli che molti critici, soprattutto in Italia, mi hanno accostato a Luchino Visconti. Fino a un certo momento ho ammirato Visconti ma poi...».
Poi?
«Be’, nei suoi ultimi film ha scelto l’esteriorità dei personaggi. All’epoca avevo una tale passione per la Nouvelle Vague, un tale rifiuto per tutto ciò che non fosse godardiano, che Visconti mi sembrava vecchio. Visconti non si rendeva conto che il cinema stava cambiando. Io sono stato sempre ispirato dall’incessante mutamento del cinema. In Visconti mancava questa coscienza. Ecco perché l’accostamento mi faceva piacere e mi feriva allo stesso tempo. Dicevo a me stesso: "Ma guarda te, sono viscontiano malgré moi". E ancora: "Ma sarà vero che sono viscontiano? Che fregatura! Possibile che non si rendano conto che i miei movimenti di macchina non raccontano solo una storia. Ma anche il cinema che si osserva, che si autoanalizza mentre si va facendo". Oggi amo Visconti più di allora».
In Io e te ritorna il tema della tossicodipendenza, morbosamente mescolato a quello dell’incesto. Il tutto sembra ispirato a un altro perturbante film di Bertolucci: La luna.
«Si tratta di uno strano giro. Dopo aver letto Io e te chiesi a Niccolò se per caso lui non fosse stato influenzato da La luna. E lui mi disse di sì. Come vedi, tout se tient».
E, infine, il lavoro sugli attori. Lorenzo, il ragazzino, interpretato da Iacopo Olmo Antinori (si noti Olmo, come il protagonista di Novecento, già, tout se tient); e Olivia, la sorellastra, è Tea Falco. Lui un esordiente, lei quasi. È evidente che Bertolucci ha scoperto altri due attori (la Falco poi, presenza scenica favolosa, sfoggia un delizioso accento siciliano). Scoprire attori è un’altra delle sue specialità. Gli chiedo qual è l’attore più grande che abbia mai diretto: «Senza dubbio Marlon Brando. La forza e la seduzione. Tutti si innamoravano di lui dopo cinque minuti. Ci incontrammo per la prima volta a Parigi all’Hotel Raphael, dove scendeva sempre Rossellini. Io vado lì e gli racconto il film con le otto parole d’inglese che ho imparato alla Berlitz. Lui sorride e tace. Io gli dico: "Ma insomma, di’ qualcosa, guardami negli occhi". "Voglio vedere quando finisci di sbattere il piede così nervosamente". Sono già conquistato. Poi mi chiede di vedere Il conformista e, a fine proiezione, mi dice che farà il film, ma vuole che io vada a Los Angeles da lui per un mese, così rivediamo insieme la sceneggiatura. Io parto per Los Angeles. Mi reco tutti giorni alla sua casa di Mulholland Drive. In un mese abbiamo parlato di tutto tranne che del film».
Dopo il film l’hai più rivisto?
«Tanti anni dopo. Subito dopo non volle più vedermi. Per anni».
Perché?
«Nessuno l’ha mai capito».
Ti sei fatto un’idea?
«Credo che si sentì tradito e usato da me. Forse ero stato capace di farlo parlare di sé. In fondo ho sempre rivisto Ultimo tango come una specie di documentario su Marlon Brando. E credo che a un certo punto se ne sia accorto anche lui, che era ossessionato dalla privacy, dalla riservatezza. Visse quel film come una violazione, una violazione avvenuta con la sua involontaria complicità».
E la Schneider?
«No, Maria, poverina, per tutta la vita continuò a odiare sia me che Marlon. In realtà c’è una cosa di cui avrei voluto chiederle perdono».
Ossia?
«Hai presente la scena che in quegli anni era conosciuta come "la scena del burro"? Il burro fu un’idea mia e di Marlon. Pensammo che sarebbe stato bello demistificare il burro con l’erotismo e l’oscenità: l’alimento tipico della petit déjeuner ridotto a lubrificante anale. Insomma, era troppo difficile spiegare a Maria tutto questo, non le dicemmo niente. Non solo, ma mi piaceva l’idea della reazione di Maria che non sapeva niente di quell’uso improprio del burro su di lei. Lei reagì con una crisi di grande umiliazione. E mi odiò perché non le avevo detto niente. Perché l’avevo trattata come si trattano i non attori. Io nel ’72 avevo trentuno anni e mi dimenticai che lei ne aveva diciannove. All’epoca ero convinto che con il tempo avrebbe potuto metabolizzare l’offesa. Dopotutto eravamo a Parigi, all’inizio degli anni Settanta, tirava il vento della grande trasgressione. E invece no. Ha coltivato un rancore nei miei confronti per tutta la vita. Quando mi chiedono cosa avrei voluto dirle, rispondo che avrei voluto chiederle scusa».
D’altronde la Schneider non fu certo la sola a incazzarsi per quel film.
«Ti assicuro che non avevo idea che Ultimo tango sarebbe risultato così scandaloso. Lo scrissi sotto l’influenza di Bataille, un autore all’epoca molto in voga in Francia e quasi sconosciuto in Italia. Che vuoi che ti dica? Avevo letto Le bleu du ciel di Bataille, l’idea di questi che fanno sesso in una suite di un grande albergo mentre in strada c’è la guerra civile mi sembrava una cosa travolgente. Il resto venne quasi da sé. Al testo delle sceneggiature ho sempre preferito gli imprevisti della realtà. Per esempio, in Ultimo tango, fu Brando di sua iniziativa ad afferrare la Schneider e ad alzarla con il braccio tra le sue gambe. Io non gli avevo chiesto un gesto così violento. Fu una bella sorpresa. Del resto i miei attori lo sanno che amo molto le sorprese. Mentre giro sono alla continua ricerca di coup de théâtre. Certo, poi sta a me renderli organici nel racconto del film».
Se a questo punto mi è consentita una digressione personale, vorrei dire che, con buona pace di Sartre, non credo alla storia che ciascuno di noi è artefice del proprio destino. Sono più dalla parte di Baudelaire e di Balzac, che credevano nella fortuna e nella scalogna. O, per essere meno aulici, sono con Walt Disney quando contrappone Paperino a Gastone. Ebbene, c’è qualcosa di fiabesco nell’avventura umana e artistica di Bernardo Bertolucci. Lui, come il suo Buddha, è un predestinato. A cominciare dal nome, un’elegante allitterazione che, proprio come il nome del suo mentore Pier Paolo Pasolini, diventa subito una sigla pop: B.B. Un’allitterazione melodiosa che sembra un verso. Non a caso il nome è stato presumibilmente scelto dal padre Attilio, uno dei massimi poeti italiani del Novecento. Per preparare questa intervista, sono andato a rivedermi (lo portai a un esame universitario) Camera da letto, il poema di Attilio Bertolucci. E vi ho ritrovato la passione dei colori, il gusto delle immagini, la bucolica sensualità del paesaggio emiliano di Novecento. E, a proposito di Novecento, Bernardo Bertolucci, un po’ come Olmo e Alfredo, è nato al momento giusto: nel pieno della Seconda guerra mondiale. Così ha potuto godersi l’euforia postbellica accanto ai più importanti scrittori della sua epoca: Moravia, Pasolini, Morante. Ha debuttato al cinema mentre il Neorealismo moriva e si affermava la Nouvelle Vague. Dopo una serie di film ermetici e sofisticati, ha raggiunto il successo con un capolavoro come Il conformista, trovando un accordo perfetto tra le ambizioni artistiche degli anni Sessanta e l’apertura al pubblico dei nuovi cineasti americani, come Coppola e Scorsese che, infatti, adorarono quel film.
«Sai, una cosa è incontrare il pubblico, un’altra è cercarlo. Io ho fatto Il conformista dopo due film molto piccoli come Partner e Strategia del ragno. Fin da allora pensavo che l’unico modo di rispettare il pubblico fosse di non ricordarsi che esiste. Diciamo che, girando Il conformista, capii che forse il rifiuto del pubblico degli anni Sessanta era solo paura. Paura di fare un film che prevedeva il pubblico, e non riuscirci».
Il successo comportò inconvenienti?
«La storia del mio successo coincide ironicamente con quella della mia analisi. I primi sette anni di analisi furono straordinari e coincisero con il grande successo — Il conformista passando per Ultimo tango fino a Novecento. I sette anni successivi furono quelli della depressione».
Sette anni di prosperità, quindi. E sette anni di carestia. Una roba biblica.
«Ricordo che tra la primavera e l’estate del ’76, dopo il passaggio di Novecento al Festival di Cannes, il mio analista, che stava preparando il Congresso della Società di psicoanalisi italiana, mi chiese di fare dono del film agli analisti per una proiezione durante il congresso che quell’anno (guarda caso) si teneva al Lido di Venezia. Mi disse che avrebbero proiettato il primo atto durante la prima sera, il secondo durante la seconda, e che la terza sera l’avrebbero commentato. Io ebbi paura che lui, così dentro il mio inconscio, volesse appropriarsi del mio film. Sentii qualcosa spezzarsi dentro di me. Se da un lato ero preoccupato, dall’altro ero esaltato. Agli amici che mi mettevano in guardia, dicevo che per tre giorni sarei stato il primo analizzato d’Italia. Visto che tutti gli analisti italiani avrebbero guardato e interpretato il mio film. Quello forse fu il culmine della mia megalomania e della mia onnipotenza. Venivo dal successo di Ultimo tango. Ora c’era questo filmone gigantesco e tutti quegli analisti che lo guardavano. Da lì cominciò la discesa verso la depressione. E mi chiedo se la decisione di andare in Cina a girare L’ultimo imperatore non sia nata dalla consapevolezza che fuggire in Cina fosse il solo modo di staccarmi dal mio analista».
Se hai così paura di staccarti, cosa provi quando finisci un film?
«Ricordo l’ultimo giorno di riprese di Ultimo tango. Eravamo sopra il ponte di Passy quando dissi: "Ragazzi, il film è finito". Allora Marlon si sporse sulla Senna facendo finta di volersi buttare. Tutti corsero a fermarlo. Lui voleva sdrammatizzare. Quando finisco un film nuovo, provo un senso di pienezza a dir poco imbarazzante, che cerco di nascondere a tutti gli altri che si salutano con i visi tristi. Senti il bisogno di nasconderlo e di esorcizzarlo. Pensa che l’ultimo giorno di lavorazione di Io e te ho chiesto di essere truccato da donna. Alla fine sembravo una vecchia bagascia giapponese. Poi ho detto a tutti: "Vedete? Sono come Sean Penn. Più mi trucco più divento virile". Era un modo come un altro per far ridere la troupe e per ringraziarla dopo l’ultimo ciak».
Alessandro Piperno con Bernardo Bertolucci