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 2012  ottobre 14 Domenica calendario

D’ALEMA, LO SPOT DEL SINDACO NEMICO E LA POLITICA DI PROFESSIONE - C’è

un numero fisso nelle performance di Matteo Renzi, assai apprezzato persino nelle Case del Popolo di certi borghi toscani di antica e radicata storia rossa, che col renzismo c’entrano poco. Prima viene proposto lo spot di Massimo D’Alema che afferma: se vince Renzi, addio centrosinistra. Poi il «rottamatore» chiosa: se vinco io, finisce la carriera parlamentare di D’Alema. E il teatro quasi viene giù dagli applausi.
Nel chiosco del magnifico ex convento francescano di Cetona, restaurato e trasformato in Frateria da Padre Eligio, ne parlano vagamente attoniti parecchi dirigenti e amministratori locali del Pd senese, tutti o quasi schierati per Pier Luigi Bersani. C’è parecchia gente, è in arrivo D’Alema: il «Confronto italiano», una vecchia tradizione cetonese, che quest’anno ha per tema il dopo Monti, si apre con una conversazione su politica e antipolitica tra lui e chi scrive. Di Renzi, D’Alema parlerà solo alla fine, confermando tutti gli aspri giudizi e i bellicosi propositi riportati dalla Stampa, e smentiti dalla sua portavoce, tranne uno. Non dice, e assicura di non aver mai detto, che il sindaco di Firenze «si farà del male». Per il resto sì, è vero, aveva preannunciato a Bersani l’intenzione di non ricandidarsi alla Camera, ma ha cambiato drasticamente idea di fronte agli attacchi di Renzi. Un po’, confessa, perché non resiste all’«odore della polvere da sparo». Ma soprattutto perché la «rottamazione» non è una domanda (legittima) di rinnovamento dei gruppi dirigenti del Pd. È, sostiene, un attacco alla «tradizione politica» di un partito nato dall’incontro tra la sinistra riformista e il cattolicesimo democratico, l’unica forza in grado, a suo giudizio, di candidarsi, in coalizione con i moderati, a governare il Paese per i prossimi dieci anni. Perché Mario Monti ha una quantità di meriti. Ma un «Monti bis» sorretto, nella prossima legislatura, da una grande coalizione più o meno mascherata semplicemente non esiste. Ed è quasi inutile chiedergli come farebbero a coesistere, anche se lo volessero, Pier Ferdinando Casini e Nichi Vendola: moderati e sinistra un modo per coesistere lo hanno trovato, e sempre più dovranno trovarlo, in vari Paesi europei, da noi (sempre, beninteso, se non fa breccia il renzismo) a fungere da architrave dell’intesa ci sarà un grande partito riformista.
Forse non è un totus politicus, D’Alema, ma un politico di professione sì, e pure orgoglioso di esserlo, basta sentire come cita non Togliatti, secondo il quale la politica era la più alta forma di attività intellettuale, ma il Max Weber che teorizza la specificità, se non la superiorità della Weltanschauung dell’uomo politico («Sono discorsi che possiamo fare solo in un eremo, fuori ci prenderebbero per matti»). La platea ascolta, un po’ convinta un po’ perplessa: sa per esperienza che tanta ostentata politicità è fuori e contro lo spirito del tempo, basterebbe meno per essere additati come l’incarnazione del male. L’impressione, conoscendolo un po’, è che D’Alema lo sappia benissimo. Ma in qualche misura, paradossalmente, se ne compiaccia anche un po’. Ed è un’impressione confermata persino dalla lettura impietosa che fa della crisi della politica (ma lui preferisce dire: della democrazia), non solo in Italia. C’è un’Europa nel migliore dei casi tecnocratica, che una dimensione politica non sa e forse nemmeno vuole darsela. Può anche ottenere il Nobel per la pace («un premio di consolazione») ma, nell’incontro annuale della Fondazione Clinton, quest’anno, per la prima volta, non è stata data la parola a nessun leader europeo: è solo un esempio, ma vuol dire che l’Europa ormai, nelle sedi che contano, viene considerata nel migliore dei casi come «un parente infermo». E ci sono gli Stati nazionali, gli unici in cui la politica conta, o dovrebbe contare, e dove dilagano i populismi antieuropei. Altrove i partiti reggono, anche se faticosamente, giocando di rimessa. Da noi, in pratica, non ci sono più, o sono debolissimi, cosicché ad occupare le istituzioni si è fatto avanti, chiamato a raccolta in primo luogo da Silvio Berlusconi, un ceto politico arraffone, una nuova, impresentabile e indifendibile «borghesia», votata solo alla propria conservazione e autoriproduzione: una specie di straordinario incentivo vivente al dilagare, in forme nuove, di un’antipolitica che in Italia ha radici più profonde e antiche che altrove.
C’è del vero? Sì, e anche molto: è questa, in fondo, la cruna dell’ago in cui non solo la sinistra, ma la politica democratica, se vuole ritrovare un senso, deve passare. Ma, se è così, il politico di professione dovrebbe saper trovare anche le parole e i toni dell’autocritica. E a chi fa dell’impegno a togliergli lo scranno in Parlamento il suo cavallo di battaglia non dovrebbe rispondere: lo avrei anche lasciato, ma non sarai tu ad avere il mio scalpo. Dovrebbe dire, al contrario: premesso che, naturalmente, non mi ricandiderò, ti darò la più dura delle battaglie. Forse se ne compiacerebbe lo spirito di Weber. Sicuramente capirebbero meglio anche quelli che renziani non sono, ma di fronte al numero di Renzi si spellano le mani.
Paolo Franchi