Antonio Polito, Corriere della Sera 14/10/2012, 14 ottobre 2012
NEL BUNKER LOMBARDO DOVE MARCISCE UN MODELLO - Lì
dove nacque e morì la Prima Repubblica, tra il 25 aprile del ’45 e Tangentopoli, sta finendo anche la Seconda. Proprio a Milano era sorta, come un tentativo di governo dal Nord della crisi italiana del ’92-’93, costruito sulla triade padana della borghesia imprenditrice di Berlusconi, del sovversivismo anti-fiscale di Bossi e del cattolicesimo delle opere di Formigoni.
L’alleanza tra Forza Italia e Lega è stata perciò la colonna vertebrale del ventennio. Fino a oggi, fino alla furiosa battaglia che si sta svolgendo davanti al bunker dove Formigoni si è asserragliato per una disperata resistenza. La giovane Lega ha infatti sconfessato l’«appeasement» di Maroni e chiede elezioni, per provare a rinascere dalle ceneri del suo alleato.
La Lombardia è stata a lungo il modello di efficienza e sviluppo che il centrodestra offriva alla nazione. E non c’è dubbio che la sua terza via tra stato e mercato, fondata sulla sussidiarietà, rimanga tra le cose migliori di quest’era politica. Per durata, il governo forzaleghista lombardo è paragonabile a quello di Pujol in Catalogna; per ambizioni, alla Csu bavarese. Appena pochi mesi fa, Formigoni era considerato una possibile alternativa alla leadership nazionale di Berlusconi, e rivendicava le primarie per prenderne il posto: dall’alto del suo grattacielo e dei suoi voti aveva smesso da tempo i panni del semplice Azzurro, ed era diventato il Celeste.
Formigoni non è dunque Polverini, e la sua caduta solleverà molta più polvere, forse anche nelle giunte del Piemonte e del Veneto, rette da leghisti. Anche perché il governatore sta cadendo peggio. Ha molte responsabilità personali, a partire dall’arroganza con cui ha trasgredito al dovere dell’umiltà cui l’ha richiamato padre Carron; prima passando le vacanze a spese di un procacciatore d’affari e poi negandolo. Ma la responsabilità politica più grave, quella che rischia di oscurare per sempre anche le luci della sua vicenda politica, Formigoni se la sta assumendo in queste ore. Davanti a sé infatti non ha solo le accuse di malaffare che riguardano ormai decine di consiglieri e assessori, dignitari di un impero durato troppo a lungo, 17 anni e quattro mandati, per resistere alla corruzione. No, davanti a Formigoni ora c’è ben più di una devianza, c’è il capovolgimento totale del modello lombardo e della sua diversità: la ’ndrangheta che detta legge a Milano, che compra e vende voti, che si è infiltrata nel suo partito e si è insediata nel governo della cosa pubblica. Di fronte a questo, un leader degno di questo nome ha l’obbligo di fermarsi e di invocare l’igiene della democrazia. A che serve conservare il potere quando sai che è marcio?
Di tutto questo dramma finale, invece, la scena più brutta è stata quella del governatore che invocava astruse formule della vecchia politica come «azzeramenti» e «rimpasti» al solo fine di prender tempo; e quella di un federalista come Maroni che alla sua prima prova di leadership correva a un vertice a Roma per accordarsi su che fare a Milano. Né l’una né l’altra possono cambiare l’epilogo.
Antonio Polito