Camille Eid, Avvenire 14/12/2012, 14 dicembre 2012
LA CINTURA DI AL QAEDA STRITOLA L’AFRICA
Uomini armati che pattugliano a piedi le vie di Timbuctu con una scritta in arabo e francese sulla giacca: Al-shurta al-islamiyya, Police islamique. L’occupazione del Nord del Mali da parte di gruppi jihadisti è solo l’ultimo atto di una politica di infiltrazione che va avanti dalla metà degli anni Novanta. A giudicare dalla missione intrapresa dal capo militare di al-Qaeda Abu Ubaidah al-Panshiri, rimasto annegato nel lago Victoria nel 1996 mentre preparava gli attentati alle ambasciate americane in Kenya e Tanzania, portati a termine due anni dopo. Già nel 2006 un ideologo del jihad internazionale aveva individuato nella debolezza e corruzione dei governi africani le prime cause atte a facilitare l’insediamento dei mujaheddin nella zona. È «un’occasione d’oro, aveva detto Abu Azzam al-Ansari, per spostarsi senza difficoltà da un Paese all’altro e ottenere grandi quantità di armi a basso prezzo».
L’offensiva islamica, volta secondo gli analisti a creare una sorta di «al-Qaeda belt», una cintura integralista, si muove oggi da tre direzioni. Da Nord, a partire dalle sacche in Algeria di al-Qaeda nel Maghreb islamico (Aqmi, ex Gruppo salafita per la predicazione e il combattimento) e dalle basi di Ansar al-Din e del Movimento per l’unicità e il jihad in Africa occidentale (Mujao), che controllano diverse località nel Nord del Mali. Da Sud, attraverso il movimento Boko Haram, accusato di aver provocato la morte di oltre 1.800 nigeriani dall’inizio della sua insurrezione nel 2009. E infine da Est, attraverso l’azione congiunta degli shabaab somali e della filiale di al-Qaeda nella Penisola arabica (Aqap). Solo su quest’ultimo fronte, la controffensiva sembra conseguire qualche successo. Alla fine di settembre, i militanti somali di al-Shabaab hanno dovuto battere in ritirata dalla loro ultima roccaforte, il porto di Kismayo, in seguito allo sbarco delle truppe keniane nel Paese.
Alti e bassi conosce, invece, la situazione in Nigeria dove, in risposta all’uccisione del loro portavoce, Abul-Qaqa, e del comandante operativo negli Stati di Kogi e Kaduna, i militanti del Boko Haram hanno assassinato il mese scorso il ministro della Giustizia dello Stato di Borno e un ex direttore delle carceri. Rimaneva quasi indisturbato il fronte settentrionale.
Sono in molti, infatti, a lamentare l’inerzia del Cemoc, il Comitato di stato maggiore operazionale congiunto, un organo nato nel 2010 sotto l’egida di Algeri e che raccoglie, oltre all’Algeria, Mali, Niger e Mauritania, con l’obiettivo di «condurre operazioni di individuazione e distruzione dei gruppi terroristici» che infestano il Sahel. Gli effettivi, che dovevano raggiungere le 75 mila unità alle fine di quest’anno, rimangono un segreto militare. Si sa solo che ufficiali di questi quattro Paesi, raggruppati nella base di Tamanrasset, nel Sahara algerino, conducono una vita serena in nuovi edifici climatizzati.