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 2012  ottobre 12 Venerdì calendario

MURAKAMI HARUKI-IL PREMIO NOBEL? PER ME CONTANO SOLO I LETTORI


La letteratura, come la vita, come una metafora o un titolo ben riusciti, è una fuga senza fine. Non c’è nessuna lotta, nessuna strategia. Al limite qualche stratagemma, qualche alleato. Tanto vale rassegnarsi: «La narrativa non deve risolvere dei problemi. Quello che può fare, è soltanto parafrasare una dopo l’altra le nostre difficoltà. Nel dislivello creato dalla parafrasi (o forse nel dislivello e nel dislivello di secondo grado provocato dal dislivello...) noi possiamo cogliere qualcosa che ci suggerisce una soluzione. O che ci suggerisce al contrario che fin dall’inizio la soluzione non esiste». Parafrasare parafrasi di parafrasi all’infinito, solo questo possiamo fare, dice Murakami Haruki al Venerdì qualche giorno prima della cerimonia di assegnazione del Nobel per la letteratura. A proposito, i bookmaker la danno favorito, come da anni del resto. «Quello che penso ogni anno» risponde «è che il Premio Nobel e i bookmaker siano veramente un accoppiamento strano». Nelle rare interviste che concede è difficile strappare molto altro sul premio. Specialmente se lo scrittore giapponese – 63 anni, sposato da quaranta, autore di libri come L’uccello che girava le viti del mondo, Sotto il segno della pecora e l’ultimo, 1Q84 – sta lavorando a un nuovo romanzo. In questo momento vive a Honolulu e l’affaccendarsi intorno a quanto accade all’Accademia di Svezia non lo distoglie dalla solita routine: si sveglia prestissimo e scrive, si allena per la maratona che corre ogni anno, la mattina ascolta musica classica, il pomeriggio e la sera jazz («il rock solo quando guido»). Niente tv, al massimo un po’ di baseball. E la sera, unica apparente citazione proustiana in una vita da Nobel per la normalità, «vado a letto presto». «Ho l’impressione di dire e ridire di continuo le stesse cose» è da sempre il suo pensiero sul Nobel, «ma per me ciò che conta non sono i premi o le onorificenze, bensì i tanti lettori, e l’empatia che loro provano nei confronti delle mie opere. Non c’è una sola cosa al mondo che meriti di essere data in cambio». E quando si parla di lettori, nel caso di Murakami, si parla di milioni. Lettori devoti e anche pazienti, visto lo scherzo che hanno dovuto subire riguardo all’ultimo romanzo, 1Q84 appunto, uscito in due volumi (in Italia il primo nel novembre scorso e il secondo il prossimo 16 ottobre) lasciandoli con la delusione dell’opera interrotta. A proposito, perché? «Quando ho finito di scrivere la prima parte pensavo che la storia fosse conclusa, ma dopo un po’ ho pensato un seguito e ho iniziato un altro volume. Con la conseguenza che in Giappone c’è stato un vuoto di un anno, che per me – e anche per l’opera – era un intervallo del tutto naturale». Una pausa creativa che è diventata una frustrante pausa editoriale. È anche vero che i due volumi fanno un totale di 1.100 pagine, forse troppe per un unico tomo. Per capirci, Moby Dick sono meno di seicento. Ha vinto la sua lotta titanica con la balena? «Non vedo questo confronto in termini di "lotta titanica". Inoltre non scrivo i miei romanzi basandomi sui criteri di "vincere" o "perdere". Per me scegliere argomenti che ritengo importanti è una cosa molto naturale. È un atto ovvio, quando scrivo non faccio assolutamente niente di speciale. Metto in moto quella dinamo chiamata "narrazione" che esiste dentro di me, e ne trasformo il movimento in parole e frasi, così com’è. In altri termini, non ho possibilità di scelta».
In 1Q84, come nella maggior parte dei suoi romanzi, il meccanismo viene annunciato fin dall’inizio: esiste un mondo noto ed esiste un mondo sconosciuto fatto di lune aliene, uomini ridotti a crisalidi, creature invisibili che tessono le fila di complotti cosmici. Nell’interazione tra questi due mondi si muovono la storia e i personaggi. In questa fuga infinita ha mai l’impressione di spingersi oltre i confini? Dove finisce la metafora?
«Il significato di un romanzo – del fatto di scrivere un romanzo – consiste nel far emergere in maniera più completa possibile, in tutti i suoi aspetti, la realtà del mondo reale, portando in esso la prospettiva di un mondo irreale. E tanto più lungo è il romanzo, quanto più ampia, più profonda e più complessa diventa quest’operazione. Per scrivere questo romanzo ho impiegato quasi tre anni. Ho consumato per quest’opera tre anni della mia vita (malgrado la parte che mi resta da vivere non sia poi tanto grande)».
Ne valeva la pena?
«Evidentemente per me sì. Per me è la cosa che più conta al mondo».
Ritiene 1Q84 il suo libro più importante?
«Nei confronti di un’opera appena terminata non mi soffermo a pensare intensamente. Perché ho già esaurito tutta la mia energia nell’azione di scrivere».
Lei è considerato un maestro nel trattare gli archetipi e lavorare su immagini e metafore che smuovono le dinamiche inconsce del lettore. È vero che lei non sogna?
«Il fatto è che, mentre scrivo, è come se facessi intenzionalmente un sogno. Di conseguenza non ho bisogno di sognare quando dormo».
Un articolo uscito su Newsweek sostiene che per capire il mondo di Murakami bisogna smettere di cercare significati nascosti nei singoli elementi e lasciarsi trasportare in quel tutto che è più della somma delle parti. È vero? I dettagli non contano?
«È attraverso l’accumulazione dei dettagli che si crea una narrazione caratteristica. In altre parole, la somma di ogni singolo dettaglio viene ad assumere, in misura più o meno grande, una funzione di metafora. Attirare questi dettagli dalla propria parte e farsene degli alleati: questo cerco di fare».
In tutti i suoi libri i suoi personaggi sono in conflitto e quasi sempre il conflitto riguarda la paura, l’amore eterno, la vendetta. In questo universo di caos e contrapposizioni pensa che compito della letteratura sia portare armonia?
«Perché ci sia armonia narrativa occorre che un racconto abbia un inizio e una fine, e che la parte di mezzo sia piena zeppa di un contenuto gustoso. Occorre che ci sia quest’equilibrio. Tutto qui. Al di là di questo criterio, non mi sono mai spremuto le meningi sul concetto di armonia. Raymond Carver nell’ultimo periodo della sua vita scrisse una poesia intitolata Una pacchia: a mio parere, perché ci sia armonia narrativa è necessario che il romanzo sia "una pacchia" per il lettore, e tanto basta. Non è qualcosa che si deve capire razionalmente, ma sentire con le papille gustative».
Qual è tra i suoi libri quello a cui è più legato?
«Non lo so. Semplicemente tiro fuori a una a una le cose che ho dentro di me, in diversi modi e in diverse forme. Mi vergogno un po’ a fare riferimento a Beethoven, ma se qualcuno gli avesse chiesto: "Delle sue nove sinfonie, quale pensa che sia il suo capolavoro?", forse avrebbe avuto difficoltà a rispondere. Perché tutte insieme creano un mondo».
Lei è molto amato in Occidente e la sua formazione letteraria è occidentale. Se dovesse definire che cosa in lei c’è di orientale, che cosa direbbe?
«Quando abitavo in Grecia, mentre pranzavo al ristorante, spesso i bambini mi dicevano: "Sei giapponese, no? Dai, facci vedere un po’ di kung-fu". Ovviamente li accontentavo. Anche se mi mettevo soltanto in posa. È importante svolgere il ruolo che ci viene assegnato».
A proposito della sua passione per la corsa, lei ha detto che scrivere è come correre: i pensieri non le vengono gratis, ma se li deve guadagnare scavando duramente e lottando. La scrittura, come tutto il resto, è questione di forza?
«Non tutti sono in grado di diventare scrittori professionisti. Visto che io sono riuscito ad acquisire tale capacità, desidero usarla al meglio, mettendoci tutta la mia energia. A questo scopo è necessaria una certa forza fisica (soprattutto quando si è superata la mezza età). È per questo motivo che da trentatré anni ogni giorno, sistematicamente, corro. Non sono in alcun modo una persona religiosa, ma sento che la facoltà di continuare a scrivere come faccio, è "un dono che, mi è stato elargito dal Cielo". Non lo voglio sprecare. Per questa ragione vorrei continuare a correre ancora per un po’ di tempo».
(Traduzione dal giapponese di Antonietta Pastore)
Dario Olivero